
Che cosa spinge Dana Malfitano a farsi cinque ore di macchina da Chicago, aspettare in coda altre tre ore per non entrare all’evento organizzato da Donald Trump a Des Moines, e nonostante tutto restare in attesa, fuori dai cancelli, nella speranza che il candidato si presenti a stringere le mani?
“La sua verità”, risponde. “Donald è uno vero”.
Come Dana almeno altre cinquecento persone non sono riuscite a entrare nell’auditorium della Drake University dove ha parlato Trump, a pochi giorni dal voto in Iowa. E come Dana, nessuno ha protestato per le ore passate in fila, a battere i piedi per il freddo, acquistare gadget e raccontarsi storie. Molti, anzi, non se ne sono andati nemmeno dopo la chiusura dei cancelli. Sono rimasti ad ascoltarlo da uno schermo gigante, mentre l’organizzazione distribuiva caffè caldo e plaid.
Alcuni del resto avevano già avuto la loro ricompensa. Frotte di giornalisti da tutto il mondo si sono abbattuti sulla gente in fila; facevano domande, estorcevano previsioni e commenti. Alla folla di questo spicchio d’America rurale, dei grandi laghi e delle grandi pianure – non abituata a essere il centro del mondo – i nomi dei network, Bbc, Cnn, Abc, Al Jazeera, facevano impressione. Per i giornalisti era spesso questione di come collocare la gente di Trump nelle categorie più diffuse e riconoscibili: il “popolo conservatore”, l’“America che ha paura”, la “maggioranza silenziosa”.
In realtà nella folla dei sostenitori o soltanto dei curiosi di Donald Trump c’è qualcosa di più che una semplice etichetta e non riconoscerlo è compiere un errore di interpretazione – come ha fatto la leadership del partito repubblicano che per mesi ha liquidato Trump e i suoi come un fenomeno da baraccone e ora si trova a sperare che i sondaggi che lo danno avanti per decine di punti siano soltanto un brutto sogno.
Nella folla in attesa alla Drake University l’altra sera c’era infatti un mondo che soltanto in parte si identifica con l’elettorato tradizionale repubblicano. C’erano sì i social conservatives, c’erano quelli che vedono nel miliardario Donald Trump una garanzia per il ritorno al vecchio capitalismo massacrato dal “socialista Obama” e quelli per cui la priorità è un’America forte nel mondo. Ma c’era anche l’America che si è invaghita di Donald Trump sentendolo dire in televisione “You’re fired”; centinaia di giovani che vedono in lui quello che otto anni fa vedevano in Ron Paul, cioè un’alternativa eversiva al corso della politica noiosa e ipocrita di Washington; e ancora i delusi dalle promesse di tutti, democratici e repubblicani; quelli che pensano che soltanto un businessman possa gestire l’“azienda America”; i credenti nella promessa dell’America città sulla collina, di cui la vita di Donald Trump sarebbe l’ulteriore epifania; quelli che amano la sua schiettezza, la capacità di tornare a un mondo più semplice e puro dove le cose avevano un nome e si potevano dire; e ancora quelli che ci capiscono poco delle nuove mappe sociali e umane e di tutti i rifugiati e i gay che vogliono sposarsi e finalmente hanno uno che lo dice.
“È ricco, non ha bisogno della politica, per questo son sicuro che farà bene”, diceva un militare in pensione, “da sempre indipendente ma da quando è sceso in campo Donald non ho dubbi”. “Mi ricorda mio padre e i miei vecchi italo-americani”, spiegava ancora Dana Malfitano. “Ha l’orgoglio di essere figlio di questo Paese, non continua a chiedere scusa per quello che siamo e facciamo”. Per una ragazza bionda che alle primarie voterà un democratico, Martin O’Malley, andare a un comizio di Trump è essenziale, “perché ti fa vedere tante cose dell’America che di solito non vedi”.
John, che sta facendo la specializzazione in medicina veterinaria e non ha ancora deciso cosa votare, è sicuro che “i repubblicani odiano Trump perché lui ha i soldi e non dipende dalla struttura del partito”. A Martin, che innalzava un cartello con la scritta “La maggioranza silenziosa è con Donald”, Trump piace “perché non è un politico, è un uomo d’affari, e quindi conosce davvero i problemi”. E tra un gruppetto di universitari diciannove-ventenni, che il giorno dopo si sarebbero dovuti svegliare alle cinque per un esame, le parole che più si sentivano erano “forza”, “sincerità”, “successo”, “promessa”.
Non c’è una sola America, ci sono tante Americhe e tanti percorsi di vita e aspirazioni che la candidatura di Trump raccoglie, pur con tutta la sua grossolanità e populismo e razzismo e atmosfera da vaudeville esasperato. E si sbaglierebbe a considerare la “paura” come il collante che tiene insieme tutti questi pezzi: la paura per l’economia che non riparte e la paura per il terrorismo e la paura per le nuove immigrazioni. Non è la paura che raccoglie la gente di Donald Trump ma è al contrario la “speranza”, la promessa di una storia diversa e migliore che si incarna nella parola e nell’azione quasi messianica dell’uomo che non dice quasi nulla su politiche, strategie e alleanze ma che vuole “far tornare l’America grande”.
In questo, per quanto possa sembrare azzardato, Donald Trump 2016 assomiglia a Barack Obama 2008. O meglio, la gente di Trump assomiglia a quella di Obama: stanca di Washington e portata a inseguire il “sogno”; senza grande interesse per il presente e pronta a cercare la “speranza”; alla ricerca di un progetto di vita e non di semplice politica che è compromesso, ragione e in molti casi delusione.