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Confini di classe, tra accesso e negazione della giustizia sociale. Intervista a Lea Ypi

Lea Ypi

Lea Ypi è una filosofa. Insegna alla London School of Economics. E’ nata a Tirana, in Albania. Ha studiato Filosofia alla Sapienza di Roma. “Libera” è il titolo di un suo bellissimo racconto autobiografico e storico, il cui sottotitolo è: “diventare grandi alla fine della storia”. Lei, nata nel 1979, diventa grande a partire da un momento imprescindibile: l’89 del Muro di Berlino, il crollo dell’Urss e di tutto il sistema di potere dei paesi del blocco sovietico, “la fine della storia”, appunto, come l’aveva definita lo storico e politologo americano Francis Fukuyama.
Lea Ypi ha appena pubblicato per Feltrinelli “Confini di classe”, un libro che raccoglie diversi suoi scritti.
Lea Ypi analizza alcuni dei temi fondamentali delle società contemporanee come le migrazioni, la cittadinanza, l’integrazione. Per scoprire che cosa? Che “la vera frattura nelle democrazie liberali “non passa tra nativi e stranieri, ma tra chi ha diritti e risorse, e chi ne è sistematicamente privato”. I confini non sono più quelli geografici, ma di accesso alla giustizia sociale (tra chi è dentro e chi ne resta fuori).
Su questa frattura, sul tema delle migrazioni e della cittadinanza la destra ha costruito un monopolio nel discorso.
E la sinistra, cosa fa? La sinistra insegue narrazioni identitarie e discorsi sulla cultura nazionale, perde di vista ciò che ha storicamente costituito il suo compito: organizzare la solidarietà di classe.
Raffaele Liguori ha intervistato Lea Ypi lunedì 19 maggio alla Fondazione Feltrinelli, dove era ospite delle “Salvatore Veca Lectures”.

La prima domanda è sul “Remigration summit”, l’adunata dei gruppi filonazisti di sabato scorso a Gallarate contro gli immigrati, per il loro immediato rimpatrio fino alla terza generazione. Com’è possibile che il cuore dell’occidente europeo, dopo i drammi del ‘900, rigeneri ancora oggi tali manifestazioni e propositi razzisti, xenofobi, neonazisti?

Io direi che l’Occidente europeo ha una storia tanto di diritto quanto di esclusione. Perché io penso che la democrazia sia una battaglia politica aperta: ci si batte per i diritti, e si vince. E quando non ci si batte, vincono gli altri, cioè quelli che cercano di minare questi diritti. Mi pare che fenomeni come questo siano una sorta di anteprima di ciò che accade quando i conflitti della società contemporanea vengono analizzati in termini culturali. Ad esempio, il problema della disoccupazione, la mancanza di sussidi, il crollo del welfare state e tutta una serie di disagi socio-economici che i cittadini di queste democrazie — finora liberali e avanzate — hanno vissuto sulla propria pelle negli ultimi decenni: se questi vengono spiegati in chiave culturale, si finisce per suggerire che il problema sia “l’altro”, l’immigrato, il diverso, il musulmano, chi ha un’altra religione, chi non si integra, chi parla un’altra lingua. Si parla, per esempio, di deportare gli immigrati irregolari. Ma quando ci si accorge che questo discorso non risolve il problema, si continua ad alzare il tiro, arrivando a colpire anche gli immigrati di prima, seconda, terza generazione. È una dinamica che conosciamo già: l’abbiamo vista negli anni ’30, ad esempio in Germania, quando prima si puntava il dito contro gli ebrei ortodossi, poi contro tutti gli ebrei. È un processo di deterioramento del conflitto culturale.

Certo è che queste persone predicano cose orrende. Allora mi chiedo: la democrazia può difendersi con strumenti democratici contro queste situazioni?

Guarda, secondo me questa è una domanda a cui si può rispondere solo in modo contestuale, cioè dipende dal contesto. Ci sono contesti politici in cui è ancora possibile difendersi con strumenti democratici, perché la democrazia è ancora abbastanza robusta, ha ancora forza. Ma ci sono anche contesti in cui non è più possibile. A quel punto, bisogna pensare ad ampliare le alternative, a ripensare la resistenza in senso più ampio. Ma non credo esista una risposta astratta, generale: dipende sempre dal contesto.

Tu hai scritto anche recentemente che la migrazione è un problema politico, non culturale. È corretto? Cosa significa?

Sì, perché oggi il tema della migrazione si pone nei termini dei confini: confini che separano una civiltà da un’altra. Si parla, ad esempio, dell’Occidente contrapposto al non-Occidente. Si sente lo slogan “rendere di nuovo grande l’Occidente”. È una spiegazione del fenomeno migratorio che individua come responsabile chi è culturalmente diverso. Io credo, però, che i confini non siano un problema in sé: diventano un problema quando sono ingiusti. Non lo sono quando sono giusti, cioè razionalmente giustificati, anche per quanto riguarda la divisione del lavoro su scala internazionale. Il problema, secondo me, è che i confini sono sempre stati aperti per alcuni e chiusi per altri. Per questo la questione migratoria non è una questione di civiltà o di cultura, ma — tutto sommato — di classe. Anche oggi lo vediamo: se guardiamo alle pratiche di cittadinanza e naturalizzazione nei Paesi liberali europei, vediamo che la cittadinanza viene ristretta ai più poveri — con obblighi di residenza, requisiti linguistici, assenza di diritti — mentre viene facilitata per i più ricchi, per chi può investire, per gli “investitori strategici”. Nelle stesse settimane in cui Donald Trump postava video dalla Casa Bianca in cui si deportavano immigrati irregolari in catene, annunciava anche la vendita di permessi di soggiorno per 5 milioni di dollari a chi poteva permetterselo. Ecco, in quel momento si capisce che il discorso sull’immigrazione e la cittadinanza non è culturale: perché se lo fosse, il reddito e l’appartenenza sociale non dovrebbero avere alcun peso. Invece è chiaramente una questione di classe, e andrebbe discussa come tale.

Torniamo a un passaggio delle origini di queste discussioni, almeno qui in Europa. La destra sembra aver costruito un vero e proprio monopolio del discorso sulla migrazione. Ne parla quasi esclusivamente, usa il proprio lessico, sceglie le parole, detta l’agenda per raccogliere consenso. Cosa significa che la destra ha questo monopolio che non intende cedere, mentre la sinistra, spesso in affanno, finisce per imitarne i dogmi invece di contrastarli?

Perché secondo me la sinistra, soprattutto il centrosinistra negli ultimi decenni, ha abbandonato il proprio linguaggio. Ha adottato un linguaggio che spiega il conflitto facendo appello a categorie identitarie. La destra dice: il problema sono le religioni diverse, le culture diverse. La sinistra, invece, conduce battaglie identitarie “a compartimenti stagni”, parlando di emancipazione delle donne, delle persone di cultura o origine diversa. Ma secondo me ha perso la capacità di fornire una diagnosi universale del disagio. Non riesce più a mettere insieme le diverse forme di disagio — che pure si manifestano in modi diversi — individuandone la radice comune nel capitalismo. La destra, in qualche modo, riesce ancora a proporre una critica della globalizzazione e persino del neoliberismo degli anni ’90. Certo, la declina in modo particolare: “il problema sono le élite europee”, “i cosmopoliti globalisti”, eccetera. Ma resta una critica. Il centrosinistra, invece, fatica a farlo, anche perché è in parte complice nella costruzione di questo consenso egemonico neoliberale. E per uscirne, dovrebbe compiere un’autocritica radicale e tornare a una critica della società che sia davvero alternativa a quella offerta dalla destra.

Tu scrivi che manca anche il coraggio. In che senso? Che tipo di coraggio dovrebbe avere la sinistra, oltre a quello che ci hai già descritto?

È il coraggio, da un lato, di guardare alla propria storia, anche alla storia della sinistra del Novecento: sia alla componente socialdemocratica, sia all’illusione che si potesse avere una socialdemocrazia perenne, senza conflitto, senza battaglie democratiche, in un solo Paese o in un gruppo di nazioni. La socialdemocrazia ha perso il senso dell’internazionalismo. Dall’altro lato, c’è una mancata resa dei conti con il crollo del socialismo reale. Anche qui c’è stata una mancanza di coraggio: quello di cercare di capire cosa non ha funzionato in quelle esperienze. La sinistra, da una parte, ha interiorizzato la critica della destra, secondo cui il problema era esclusivamente economico. Ma non ha colto il punto fondamentale: la vera causa del crollo di quei sistemi comunisti era la mancanza di democrazia. La mancanza dei diritti di prima generazione: libertà di pensiero, libertà di movimento, libertà di associazione. È lì che si è generato tutto il malessere nei Paesi dell’Est. Senza una vera resa dei conti con questo, sarà molto difficile andare avanti.

Tu hai parlato del fallimento delle società liberali su tre piani distinti, con origini differenti. Vediamoli brevemente uno per uno, perché ci aiutano a capire il quadro complessivo. Il primo è il fallimento della politica democratica.

Sì, è il fallimento della rappresentanza democratica. In particolare, è il venir meno dell’idea di partito come costruttore di dialogo democratico. Oggi il partito non è più questo: è solo una macchina elettorale che va a raccogliere le preferenze dei cittadini e si limita a rispondere a quelle, senza alcuno sforzo di mediazione, di elaborazione politica e culturale.

Sempre che riesca a raccoglierle, perché spesso i cittadini nemmeno votano…

Esatto. E poi c’è il fatto che il partito politico oggi si comporta come un’agenzia di marketing: si rivolge al cittadino come a un consumatore. Il rapporto tra rappresentante politico e cittadino diventa lo stesso di una compagnia commerciale con un cliente. Questo è il primo fallimento, quello della rappresentanza democratica e dell’idea stessa di partito. Il secondo è il disagio sociale. Dopo decenni di politiche neoliberiste, lo stato sociale è stato smantellato, le possibilità di contrattazione per i lavoratori sono state distrutte, l’economia è stata oligarchizzata. Chi ha potere economico oggi si compra direttamente l’influenza politica. Lo vediamo chiaramente negli Stati Uniti con figure come Elon Musk, Donald Trump, Jeff Bezos: lì il capitale si è completamente identificato con la politica. Il terzo fallimento, critico per la sinistra, è l’assenza di una visione internazionalista delle alternative. Anche quando si pensa a modelli alternativi, si finisce sempre per rispolverare vecchi modelli socialdemocratici nazionali, senza fare davvero i conti con la globalizzazione e con la necessità di ripensare le istituzioni internazionali.

Chiudiamo questa chiacchierata — e ti ringrazio per tutto quello che hai condiviso finora — con una questione che tu sollevi spesso nei tuoi scritti. La destra, quando interviene su questi temi, lo fa dividendo: “noi” contro “loro”. La sinistra, al contrario, tenta di unire, di includere. Ma tu sostieni che la vera frattura nella società non sia tra nativi e stranieri, bensì tra chi ha diritti e risorse e chi ne è privo.

Sì, perché la politica è sempre caratterizzata da questa dinamica: da un lato la costruzione di alleanze e solidarietà tra simili, dall’altro la ricerca del nemico, di chi minaccia queste alleanze. L’errore della sinistra è cercare di unire tutti in un moralismo astratto, che non tiene conto delle contraddizioni sociali, economiche e politiche della società contemporanea. Così si perde la capacità di articolare un discorso sulle responsabilità, sugli agenti sociali realmente coinvolti. Il discorso tradizionale della sinistra era un discorso strutturale: individuava determinati gruppi sociali — i capitalisti, ad esempio — come quelli che riproducono i rapporti di produzione e, con essi, anche il consenso e i diritti. Da lì nasce il disagio sociale. È questo il discorso che la sinistra dovrebbe recuperare: non una ricerca astratta dell’unità, ma un’analisi concreta, economica e sociale della realtà.

  • Autore articolo
    Raffaele Liguori
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