Il cambiamento climatico produce effetti in tutto il mondo che pian piano si palesano ai nostri occhi: malattie tropicali migrano verso i climi temperati, come la dengue, e specie animali si comportano allo stesso modo, come i pappagalli verdi che stanno invadendo il Nord Italia. L’agricoltura o si adegua o muore, e in questo processo può scoprire nuove potenzialità. La produzione dei frutti tropicali, ad esempio, è da sempre monopolizzata, come dice il nome stesso, dai Paesi che si trovano nella fascia equatoriale del pianeta. Ma, per via del cambiamento climatico, adesso è possibile adattarla a regioni fino a ieri non adeguate. Come la Sicilia, dove la multinazionale (oggi svizzera) Chiquita ha appena annunciato la sua prima piantagione europea di banane. Il banano, originario del Sudest asiatico tropicale, è stato uno degli alberi che più ha viaggiato a bordo delle navi delle potenze coloniali e dei trafficanti di schiavi, conquistando un ruolo importante in Africa e, soprattutto, in America Centrale e nelle regioni settentrionali del Sudamerica. La banana era preziosa perché considerata un ottimo alimento per gli schiavi, anche nella sua versione “da cottura”, il platano. Ma la vera fortuna di questo frutto iniziò nei primi anni del ’900, quando i medici statunitensi cominciarono a consigliare alle mamme di far mangiare banane ai figli, in virtù dell’abbondanza di potassio e di altri nutrienti di qualità. La crescita della domanda internazionale trasformò il banano in un albero da piantagione, a discapito di vaste porzioni di foreste tropicali abbattute per coltivarlo. Questa espansione, che in breve avrebbe fatto diventare la banana il frutto più diffuso al mondo, fu gestita per decenni in regime di quasi monopolio dalla statunitense United Fruit Company, poi rinominata Chiquita. Quell’azienda divenne una forza economica, politica e perfino militare in Paesi come Guatemala, Costa Rica, Honduras, Panama. Dettava legge, otteneva privilegi, nominava i governanti e, quando alle elezioni vinceva qualcuno che potesse intaccare i suoi interessi, lo rovesciava: ad esempio, accadde in Guatemala con il socialista Jacobo Árbenz, spodestato nel 1954 da un colpo di Stato e sostituito da una dittatura. I Paesi vittime della “piovra verde”, come era conosciuta la United Fruit, divennero così le “Repubbliche delle banane”. Quest’azienda, che tra il 2024 e il 2025 ha subito condanne in Colombia per avere pagato gruppi paramilitari per “difendere” le proprie piantagioni, ovviamente oggi si presenta in Europa con le migliori intenzioni in materia di sostenibilità ambientale e sociale. Un vero e proprio specchietto per le allodole, utile a fare dimenticare tutto il resto. E cioè che, nel mondo, le piantagioni di banane consumano foreste e immettono enormi quantità di pesticidi e di plastica nell’ambiente. E storicamente hanno prosperato grazie anche allo sfruttamento dei lavoratori. Le prime banane mediterranee saranno invece bio, orgogliosamente Made in Italy e sicuramente i lavoratori della piantagione saranno tutti in regola. Mentre si discute di barriere tariffarie e dazi, si trascura la nuova concorrenza che si va profilando nella gamma di prodotti che rappresentano le uniche voci dell’export dei Paesi equatoriali e tropicali: frutta, caffè, cacao. Il cambiamento climatico metterà quei Paesi progressivamente in competizione con gli agricoltori di una parte Nord del mondo e le regole potrebbero cambiare: quando saranno Made in Italy o Made in Spain, difficilmente i manghi e le banane costeranno così poco come oggi, perché l’attuale prezzo stracciato è dovuto al saccheggio dell’ambiente e allo sfruttamento del lavoro. E forse, come in passato, questi prodotti torneranno a essere appannaggio dei soli ricchi: gli unici che una volta potevano permettersi il cacao, il caffè o i frutti esotici.


