Approfondimenti

Cinquant’anni portati benissimo

Bergamo Jazz 2019

C’erano tanti compleanni nell’edizione 2019 di Bergamo Jazz, le cui giornate clou si sono snodate da giovedì 21 a domenica 24 marzo: i settantacinque anni di Gianluigi Trovesi, compiuti il 10 gennaio scorso; gli ottantacinque di Manu Dibango, che li ha compiuti il 12 dicembre scorso; e innanzitutto i cinquanta proprio del festival del jazz di Bergamo.

La rassegna è arrivata quest’anno alla sua quarantunesima edizione ma è nata nel 1969. E già nella prima metà degli anni settanta la manifestazione era diventata uno degli appuntamenti principali per il jazz nella penisola, ed ebbe fra l’altro un ruolo di primo piano nella diffusione presso il pubblico italiano delle ultime tendenze del jazz d’avanguardia: basti citare la memorabile edizione del ’71, in cui in tre sere il festival presentò al Teatro Donizetti il gruppo di Paul Bley, con la cantante Annette Peacock e il leader al sintetizzatore, uno strumento che era una novità pressoché assoluta, The Trio di John Surman, Barre Phillips e Stu Martin, e Circle con Chick Corea e Anthony Braxton; o quella del ’74, con un’esibizione dell’Art Ensemble of Chicago che fece epoca.

Poi il festival saltò alcuni anni, ma nel tempo, attraversando i decenni e qualche aggiustamento nell’intestazione, si è affermato come una delle presenze più stabili e qualificate nel panorama delle rassegne di jazz in Italia: per gli appassionati è tradizionalmente l’appuntamento con cui inizia l’anno dei festival del jazz. Bergamo Jazz è una rassegna che mantiene un profilo jazzistico complessivamente alto (il che – non sembri strano – non è così scontato nel proliferare di manifestazioni che del jazz propongono un’immagine molto edulcorata), e che continua a coltivare un forte interesse per il jazz americano e afroamericano (e anche questo non è scontato). Pur volendo innanzitutto rivolgersi in maniera affabile ad un affezionato pubblico della città Bergamo Jazz potrebbe permettersi più spesso qualche punta più audace: ma visti i pregi che abbiamo accennato gli possiamo perdonare una certa prudenza. Quest’anno poi il festival con due proposte di rilievo ha aperto il cartellone all’Africa: e anche questo, con i chiari di luna che vediamo, non è poco.

Manu Dibango (foto Gianfranco Rota)
Manu Dibango (foto Gianfranco Rota)

Arrivato a Bergamo nella scia dei festeggiamenti per i suoi ottantacinque anni, iniziati il giorno del suo compleanno con una grande serata al parigino Le Palace, Manu Dibango è stato protagonista unico della serata conclusiva del festival. Camerunese di nascita e francese di adozione, decano della musica africana in Europa, fra i primi protagonisti della musica del continente nero (assieme a Miriam Mekeba e a Fela Kuti) ad affermarsi a livello internazionale, precursore della world music, Dibango porta splendidamente le sue ottantacinque primavere. Al Creberg Teatro (dove si sono tenute le serate da venerdì a domenica: il Teatro Donizetti, la tradizionale e bella cornice del festival, è chiuso per ristrutturazione) si è presentato accompagnato da chitarra, tastiere, basso, batteria e due coriste, proponendo una musica nitida e calibrata, pervasa da quella cordialità e bonarietà che sono inscritte nella sua cifra stilistica: Dibango la anima suonando abbondantemente il sax alto, con un suono brillante e incisivo, leggermente funky, e con un vivace gusto per la melodia. Ha cominciato con un suo classico, Douala Serenade, omaggio alla città che gli ha dato i natali, e dopo un’ora e mezzo ha siglato il festival tenendosi per il bis l’inevitabile Soul Makossa, il suo hit planetario dei primi anni settanta. Il pubblico non si era mosso dalle poltroncine fino a quando, qualche brano prima, Manu aveva fatto presente che magari era il caso di ballare, ma poi si è finalmente lasciato andare.

Forse la sera prima Dobet Gnahoré ha invece sottovalutato la disciplinata compostezza del pubblico di Bergamo Jazz, che, non esplicitamente invitato ad alzarsi, è rimasto fermo al proprio posto: in compenso Dobet Gnahoré si è divertita a farlo cantare, e ha ballato lei.

Dobet Gnahore (foto Gianfranco Rota)
Dobet Gnahore (foto Gianfranco Rota)

Da quando nel 2001 la giovanissima e allora praticamente sconosciuta Dobet Gnahoré si esibì in un paio di brani fuori programma in un’edizione di Extrafesta di Radio Popolare che aveva come protagonista il gruppo di suo padre, il percussionista Boni Gnahoré, nel frattempo la cantante ivoriana ha fatto una bella carriera e si è affermata – anche grazie a delle esibizioni live di notevole classe e molto trascinanti – come una delle protagoniste della musica dell’Africa nera più note e apprezzate a livello internazionale, assieme ad artiste come Angelique Kidjo, Rokia Traoré e Oumou Sangaré. Dave Douglas, direttore artistico uscente di Bergamo Jazz, ha introdotto il suo concerto presentandola come “autodidatta”: in realtà Dobet Gnahoré si è formata studiando per diversi anni musica, canto, percussioni, teatro in una scuola impegnativa e anche piuttosto severa, il Village Ki-Yi M’Bock, fondato nel 1985 ad Abidjan da quella singolare figura di teatrante e intellettuale che è la camerunese Were Were Liking. Con questa preparazione Dobet si è distinta per la sua capacità di assicurare esibizioni di impatto con una estrema economia di mezzi, proponendo con tre-quattro strumentisti una musica di notevole comunicativa, garbatamente ibrida, moderna ma senza eccessi. Nel suo ultimo album, Miziki, pubblicato lo scorso anno, Dobet ha pensato però di dare un tocco più attuale alla sua musica con l’aggiunta di un po’ di elettronica e campionamenti. Una novità che dal vivo – sempre con l’impiego di un ridotto numero di musicisti (chitarra/voce, tastiere/laptop, batteria) – si combina con una presentazione più elaborata sul piano visivo e coreografico. Se lo show è suggestivo, con il grande dinamismo di Dobet che canta, balla, si muove, suona percussioni, in un continuum che ha qualcosa di teatrale/rituale, il sound elettronico rischia però a volte di schiacciare un po’ troppo il primo motivo di fascino della musica di Dobet Gnahoré, che è la sua personalità di cantante, con una vocalità di temperamento, caratterizzata da un timbro scuro e da una interessante vena severa e drammatica. Quando l’elettronica è stata meno incombente, Dobet Gnahoré ha subito brillato. Fra i brani, cantati per lo più in beté (la lingua dell’etnia omonima, una delle più importanti nel complesso mosaico etnico della Costa d’Avorio), Education, dedicato all’importanza dell’educazione come veicolo di emancipazione, e Palea (uscito in un precedente album di Dobet, Na Afriki del 2007), che le è valso un Grammy Award per Pearls, il remake della omonima canzone dei primi anni novanta di Sade che India Arie ha realizzato riprendendo il testo del brano della cantante inglese e utilizzando la musica della canzone di Dobet.

Archie Shepp (foto Gianfranco Rota)
Archie Shepp (foto Gianfranco Rota)

La prima serata al Creberg è stata aperta dal quartetto di Archie Shepp, grande alfiere del free jazz degli anni sessanta e uno dei maggiori sax tenori della sua generazione. Quando un musicista che ha fatto la storia del jazz ha superato gli ottant’anni, si può tranquillamente andare a rivederlo in scena anche solo per rendere omaggio alla sua carriera, a quello che rappresenta. Ma Shepp, accompagnato al pianoforte e al contrabbasso da due musicisti europei, Pierre-François Blanchard e Matyas Szandai, e alla batteria da Hamid Drake, ha mostrato di avere ancora delle cose non banali da dire. Persino come cantante, dove può di volta in volta esibire una vena ruvidamente blues, un approccio più morbido quasi da crooner o quell’inconfondibile modo di porgere drammatico che rivela la sua esperienza teatrale. Al sax tenore e al soprano vengono fuori ancora tanti tratti che ci ricordano che Shepp è uno dei sassofonisti più personali della vicenda del jazz: note profonde e calde nelle ballad, note strozzate e passaggi aggrovigliati, momenti ipnotici, spiritati dei suoi fraseggi, certi vibrati fantasmatici in cui sembra di sentire l’eco di tutta una storia di dolore e di sofferenza afroamericana, certe acidità del soprano.

Magistrale Hamid Drake, abitualmente batterista esuberante, nell’evitare di soverchiare, suonando con grande tatto, in maniera sottile, e al contempo con una felice varietà di modalità.

Sara Serpa (foto Gianfranco Rota)
Sara Serpa (foto Gianfranco Rota)

Non abbiamo potuto seguire tutti gli appuntamenti del festival, iniziati già la domenica 17 e che nelle quattro giornate clou cominciano già al mattino. In particolare non abbiamo potuto assistere giovedì 21 alla serata di festeggiamento per Gianluigi Trovesi al Teatro Sociale di Bergamo Alta, nella quale il sassofonista e clarinettista bergamasco si è esibito prima con il suo quintetto con ospite la pianista israeliana Anat Fort, poi con la norvegese Bergen Big Band, con ospiti il trombettista Manfred Schoof (veterano del jazz europeo) e la clarinettista Annette Maye.

Al festival si sono esibiti quest’anno fra gli altri anche David Murray (altro grande sax tenore, di quasi vent’anni più giovane di Shepp: ne abbiamo scritto lo scorso anno a proposito delle sue esibizioni a Sant’Anna Arresi e a Skopje), Terence Blanchard, Jacky Terrasson, Pasquale Mirra/Hamid Drake, Anja Lechner, Sara Serpa, Dinosaur, Quintorigo, Dimitri Grechi Espinoza, Federica Michisanti, e la P-Funking Band che ha portato la musica in giro per Bergamo Alta e Bassa.

Splendide molte delle sedi dei concerti con cui Bergamo Jazz investe in maniera diffusa la città: citiamo solo, oltre al Sociale, il bellissimo Ex oratorio di San Lupo, e l’Accademia Carrara, in una sala della quale, fra i quadri della sua importante collezione, si sono esibiti in duo Pasquale Mirra e Hamid Drake.

Con l’edizione 2019 di Bergamo Jazz dopo quattro anni è arrivata a conclusione la direzione artistica di Dave Douglas. Sembrava quasi diventata una regola che a dirigere Bergamo Jazz dovesse essere un trombettista: prima di Douglas Paolo Fresu ed Enrico Rava. Adesso la serie si interrompe, con la scelta di una direzione artistica non meno qualificata e che in un mondo del jazz ad egemonia maschile presenta anche la bella novità di essere affidata ad una donna: la cantante Maria Pia De Vito.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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