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Carnegie Hall, 23 dicembre 1938 (1)

Sul finale degli anni trenta del Novecento la Carnegie Hall ha ormai attraversato da protagonista quattro decenni di vita musicale newyorkese: fatta costruire nel 1891 dal mecenate Andrew Carnegie in una posizione centralissima, sulla settima Avenue, fra la 56esima e la 57esima strada, quindi appena sotto Central Park – dove con le sue diverse sale continua a funzionare ai giorni nostri – la Carnegie si era rapidamente affermata come il tempio della musica classica della Grande Mela. La Carnegie aveva ospitato prime mondiali come quella nel 1893 della Sinfonia dal nuovo Mondo di Dvorak, della Sinfonia domestica di Richard Strauss nel 1904, fino a quelle del Concerto in Fa e di Un americano a Parigi di Gershwin nel ’25 e nel ’28, e di Density di Varèse nel ’36.

In effetti fin dall’inizio la Carnegie Hall non si mostra rigidamente consacrata alla grande tradizione musicale europea e ai suoi sviluppi nel Nuovo Mondo, né chiude le porte agli afroamericani. Nel sito internet della Carnegie, la celebre soprano neroamericana Jessye Norman ha curato Honor!, una lista-consuntivo delle presenze afroamericane in questo glorioso teatro, con riferimento tanto agli artisti che agli intellettuali e ai conferenzieri: l’elenco è già abbastanza nutrito per il decennio 1892-1900, anni in cui alla Carnegie parla per esempio Booker T. Washington, che all’epoca è il leader per eccellenza della comunità afroamericana; o, dopo aver studiato a Berlino con Joseph Joachim, uno dei più grandi violinisti dell’ottocento, si esibisce appunto come violinista Will Marion Cook, poi fortunato autore per musical pionieristici; saltando più avanti, nel 1912 troviamo alla Carnegie un concerto della Clef Club Orchestra, compagine che esegue musica – anche di Marion Cook – che aspira ad una orgogliosa originalità afroamericana, ma anche ad un livello compositivo di grandi ambizioni, proponendosi insomma con un’identità diversa ma sullo stesso piano della musica classica. Sempre per quanto riguarda le presenze afroamericane, nel ’28 alla Carnegie canta la contralto Marian Anderson, nel ’29 Paul Robeson. Da questi esempi si sarà capito che quello che passa dalla Carnegie può anche non essere musica classica, e che gli artisti possono anche essere  afroamericani, ma le proposte devono essere sempre molto decorose e serie.

La vera svolta è il 16 gennaio del 1938, quando alla Carnegie irrompe il trionfante swing di Benny Goodman: Don’t Be That Way, un brano che proveniva dal repertorio dell’orchestra di Chick Webb, fu ritenuto da Goodman il più adatto per rompere il ghiaccio con la sua big band.

 

 

La serata del 16 gennaio del ’38 può essere considerata come il momento culminante del successo e del ruolo di Goodman nella vicenda del jazz, e l’apice di quella che viene chiamata “follia dello swing”.

Nell’arrivare ad essere il personaggio più popolare dell’era dello swing, al suo culmine nell’ultimo scorcio degli anni trenta, Benny Goodman ci mette certamente molto di suo: le sue qualità come strumentista, al clarinetto; più complessivamente la sua intelligenza musicale e il suo talento come bandleader; e la sua abilità nella gestione della sua carriera. D’altra parte Goodman deve molto del suo successo ai musicisti meravigliosi di cui si circonda: Fletcher Henderson, Gene Krupa, Harry James, Teddy Wilson, Lionel Hampton, Charlie Christian. Se però – a parte lui medesimo – c’è un artefice principale delle fortune di Goodman negli anni trenta, questo qualcuno non va cercato fra i suoi grandi musicisti: questo qualcuno è John Hammond. Anche perché è proprio per via di John Hammond che molti di quei meravigliosi musicisti sono alla corte del “re dello swing”, come lo definiscono i media dell’epoca.

E’ un giovanissimo Hammond a convincere un Goodman all’inizio perplesso a dedicarsi ad una musica dagli spiccati connotati jazzistici anziché a cose più commerciali, e a spingerlo a costituire un’orchestra; è Hammond a mettere in contatto Goodman con Fletcher Henderson; Goodman conosceva benissimo Gene Krupa dagli anni venti a Chicago, ma è Hammond a suggerirgli di prendere lui come batterista; è Hammond a proporgli come pianista Teddy Wilson; è Hammond a portare Goodman ad ascoltare Lionel Hampton in un club di Los Angeles – in pratica quindi il famoso quartetto di Goodman con Wilson, Hampton e Krupa non sarebbe mai esistito senza i consigli di Hammond – ed è ancora Hammond a dare retta a Mary Lou Williams, che gli segnala il talento di un giovane chitarrista di Oklahoma City, Charlie Christian, a cui naturalmente Hammond combina al più presto un’audizione con Goodman.

E dietro la trionfale serata di Goodman alla Carnegie Hall c’è Hammond.

John Hammond nasce a New York nel 1910: entrambi i genitori appartengono a famiglie di una certa importanza: il nonno paterno, John Henry Hammond è stato generale nella guerra civile. Il piccolo John mostra prestissimo un vivace interesse per la musica: a quattro anni comincia a studiare il piano, a otto il violino. La famiglia ha ottimi gusti musicali: Beethoven, Brahms, Enrico Caruso; la mamma lo indirizza verso la musica classica; ma il piccolo John è irresistibilmente attratto da quello che sente cantare e suonare negli alloggi della servitù dal personale di servizio, che è in buona parte nero. Con la madre però John condivide la sensibilità sociale, che sviluppa molto presto: la madre ritiene di dover approfittare del privilegio delle risorse di cui la famiglia dispone per contribuire al benessere della comunità e al progresso sociale.

Paradossalmente (e significativamente) Hammond non scopre il jazz a New York, ma nel corso di un viaggio con la famiglia a Londra nel ’22, quando quindi è sui dodici anni. Nella capitale britannica ha occasione di ascoltare un complesso di jazz bianco, ma anche uno spettacolo di artisti neri fra i quali c’è anche Sidney Bechet. La suggestione di questa musica lo spinge, al suo ritorno negli Stati Uniti, a cercare dischi di musicisti neri: per scoprire che nei negozi di Manhattan che vendono dischi ai bianchi quei dischi non ci sono. Così il ragazzino Hammond comincia ad andare a cercare i dischi che gli interessano ad Harlem. A quattordici anni Hammond viene iscritto in un collegio, dal quale ottiene il raro permesso di uscire nei fine settimana per andare a prendere lezioni di musica: quello che i responsabili della scuola ignorano è che Hammond ne approfitta anche per andare ad Harlem ad ascoltare blues e jazz.

Nell’autunno del ’29 Hammond entra alla Yale University: ma si trova a disagio con i suoi compagni di studi, perché Hammond ha solo diciannove anni ma in realtà è già entrato nella dimensione di un’attività professionale. Si reca spesso a New York, scrive per riviste, e nel ’31 finisce per abbandonare l’università, buttandosi in una carriera nel business della musica. Comincia fra l’altro a scrivere per la rivista inglese Melody Maker, a produrre sedute di registrazione discografiche, ad animare un programma radiofonico di jazz, e si stabilisce al Greenwich Village, dove entra nella bohème del quartiere. Hammond comincia anche a pubblicare interventi sulla questione della segregazione razziale. Conduce un programma di jazz in una stazione radiofonica che gli consente di invitare anche musicisti neri: tra gli ospiti il giovane Hammond ha Fletcher Henderson, Benny Carter, Art Tatum. Quando poi la stazione radiofonica si trasferisce in una nuova sede, in un edificio in cui ai neri non è consentito di utilizzare l’ascensore principale, Hammond rinuncia alla sua trasmissione.

La frequentazione di Harlem da parte di un bianco ormai adulto come Hammond, guardato con diffidenza, non è inizialmente priva di difficoltà: ma via via Hammond viene aiutato ad inserirsi nell’ambiente nero dalle amicizie che stringe con molti musicisti: in particolare quella con una figura autorevole come Benny Carter costituisce un eccellente passaporto. Nel ’33 un Hammond ventitreenne ascolta ad Harlem una diciassettenne Billie Holiday: ne rimane impressionato, e le combina con l’orchestra di Benny Goodman una seduta di incisione che costituisce l’esordio discografico della cantante.

Dalla sua fascinazione infantile per la musica della servitù nera della sua famiglia e dalla sua attrazione adolescenziale per Harlem  Hammond non tornerà più indietro. Negli anni Hammond continuerà ad essere un pasdaran della musica nera e un grande agit-prop dei diritti civili e del superamento delle barriere razziali. C’è lui dietro la nascita del quartetto Benny Goodman/Gene Krupa/Teddy Wilson/Lionel Hampton, che fa epoca non solo per la sua musica: se a bianchi e neri poteva capitare di suonare assieme in piccoli club e in situazioni marginali, o negli studi di incisione, non si era mai visto un gruppo di jazz razzialmente integrato – due bianchi e due neri – fare furore sfondando nel gradimento del pubblico giovane, e innanzitutto del giovane pubblico bianco.

La serata del 16 gennaio del ’38 è il trionfo dello swing bianco di Benny Goodman, ma anche una tappa storica nella vicenda delle relazioni razziali negli Stati Uniti. Molto del merito è di Hammond. Che però, se da un lato costruisce il successo del bianco Benny Goodman, nella seconda metà degli anni trenta si rende conto del talento del nero Count Basie, e lo valorizza: è Hammond a farlo arrivare a New York. Per via dello stato dei rapporti razziali dell’epoca, Basie, che con la sua orchestra rappresentava la più straordinaria incarnazione dello swing nero, proprio perché nero non poté, agli occhi della massa del pubblico americano, spodestare Goodman come “re dello swing”, ma di Goodman anche grazie a Hammond diventò un temibile concorrente.

“La più forte motivazione per il mio dissenso – ebbe occasione di ricordare Hammond riferendosi alla sua disapprovazione nei confronti della discriminazione razziale – è stato il jazz. Per me nella musica non c’era la barriera del colore. E fare in modo che venisse riconosciuta la supremazia nera nel jazz è stata la più efficace e costruttiva forma di protesta sociale che ho potuto concepire”. E’ significativo che questa affermazione sulla supremazia nera nel jazz venga da un uomo che ha agito come produttore e consigliere di un musicista bianco di grandissimo successo come Benny Goodman.

E’ con questo spirito da sfegatato ammiratore della musica nera che nel ’38 Hammond allestisce per il 23 dicembre una serata che intitola From Spiritual to Swing.

Forte del suo titolo di “re dello swing”, con la serata di cui è protagonista nel gennaio del ’38 Goodman fa due cose rivoluzionarie. Porta in grande stile il jazz, lo swing – cioè una musica popolare che era in quel momento espressione di una assoluta modernità non accademica – dentro un santuario della musica classica. E poi in una sede così prestigiosa fa suonare assieme musicisti bianchi e neri: neri erano diversi suoi musicisti, e guest come Count Basie e i musicisti della sua band, e alcuni solisti di Ellington.

Il ’38 che si era aperto con il trionfo alla Carnegie Hall dello swing bianco ma nutrito di energie nere di Benny Goodman, va così poi verso la chiusura, l’antivigilia di Natale, sempre alla Carnegie Hall, con un’altra clamorosa serata, che Hammond concepisce esplicitamente come una celebrazione della storia e della grandezza della musica afroamericana. Il 1938 va quindi verso la sua conclusione con il jazz e la musica nera che tornano alla Carnegie Hall: quasi a far capire che lo sfondamento operato da Goodman non era destinata a restare una parentesi subito richiusa, un’eccezione concessa ad una star di assoluto successo.

Benché in America qualcosa stesse cambiando, come dimostrava il concerto dell’inizio dell’anno alla Carnegie Hall di una popolarissima star come Goodman, con musicisti bianchi e neri sullo stesso palco in un clima di trionfo, quello di Hammond di organizzare alla Carnegie Hall un’altra grande serata, destinata a celebrare il valore della musica nera davanti ad un pubblico non segregato – fatto del tutto irrituale negli Stati Uniti dell’epoca – e per di più in una sede prestigiosa come la Carnegie Hall, nell’America di allora era un progetto troppo avanzato socialmente e troppo culturalmente sofisticato per non trovare ostacoli: a quei tempi suonava quasi come una provocazione. Hammond spingeva la sfida ancora più avanti rispetto alla serata che aveva visto il trionfo di Goodman.

Hammond cercava associazioni e organizzazioni che mettessero la loro firma sulla serata: ricevette molti no, compreso persino quello della Naacp, l’importantissima “Associazione per il progresso della gente di colore”. Ma alla fine Hammond uno sponsor lo trovò: la rivista New Masses, organo culturale del Partito Comunista, che negli anni trenta da rivista culturale e letteraria aveva assunto un profilo più spiccatamente politico e giornalistico. Hammond ebbe occasione di dichiarare di non essere mai stato comunista: ma senz’altro fu molto vicino, contiguo ai comunisti, date le sue idee molto avanzate di riforma della società, e dato il suo “dissenso” – per riprendere il termine utilizzato da lui stesso – nei confronti della segregazione all’epoca ampiamente praticata negli Stati Uniti. Un dissenso verso la discriminazione che tra le forze organizzate, nella politica e nella società civile degli Stati Uniti dell’epoca, certo non trovava molti interlocutori, e il Partito Comunista era uno dei pochissimi.

Siamo negli anni in cui non a caso anche due scrittori neri come Richard Wright e Ralph Ellison, quest’ultimo profondamente legato all’esperienza del jazz, fanno parte del Partito Comunista degli Stati Uniti, che poi verso la fine della seconda guerra mondiale lasceranno, delusi dalla piega riformista presa dal partito. E’ un’epoca in cui ci sono comunisti anche fra i musicisti neri: il più noto è il trombettista Frankie Newton, che nel ’39 avrà l’audacia di accompagnare Billie Holiday nello scottante Strange Fruit, mentre lo stesso Hammond non avrà il coraggio di pubblicarlo, malgrado la sua ammirazione per la cantante.

Del resto la guerra fredda e il maccartismo erano di là da venire, e il Partito Comunista americano non era affatto isolato: il livello delle collaborazioni a New Masses era molto alto: per fare solo un nome, fra il ’35 e il ’39 Ernest Hemingway vi pubblicò quattro articoli. Nel ’37 il settimanale pubblicò il testo sull’orrore del linciaggio di Strange Fruit, testo che poi sarebbe stato reso famoso dall’interpretazione appunto di Billie Holiday.

Il jazz, con in testa l’orchestra di Count Basie, rappresentava solo una parte di From Spiritual To Swing: in quello spettacolo dell’antivigilia di Natale del ’38 il jazz era il punto di approdo di un’evoluzione di cui, come vedremo nella seconda puntata, la serata, in un programma congegnato con grande fiuto ed efficacia da Hammond, voleva toccare molti altri momenti.

 

Qui il concerto del 23 dicembre del ’38, aperto dall’orchestra di Basie (i brani 4-6, 8 e 10 sono registrazioni di studio effettuate da Hammond nel giugno del ’38).

 

 

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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