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Perché Donald Trump va in Messico

Una visita al presidente messicano Enrique Peña Nieto. Un discorso sull’immigrazione a Phoenix, Arizona. Donald Trump ritorna sulle prime pagine con una controffensiva mediatica impostata proprio sul tema che ha più segnato la sua campagna: l’immigrazione.

Il viaggio in Messico, ufficialmente, arriva dopo un invito della presidenza messicana (esteso peraltro anche alla candidata democratica Hillary Clinton). Il gesto di Peña Nieto non sorprende. Gli Stati Uniti sono il primo partner commerciale per il Messico – e sicuramente il Paese più importante in tema di relazioni politiche.

Ciò che sorprende è il fatto che Trump abbia deciso di accettare l’invito messicano. Proprio al Messico il candidato repubblicano ha dedicato alcuni dei suoi giudizi più aspri. Trump ha definito “assassini e stupratori” i messicani che valicano la frontiera; ha chiesto che al confine venga eretto un muro (a spese del Messico); ha minacciato di far saltare il Nafta.

Non sono mancate le scintille anche dall’altra parte del confine. Proprio Peña Nieto, lo scorso marzo, ha paragonato la retorica di Trump a quella di Benito Mussolini e Adolf Hitler. Il presidente messicano, in un’intervista a CNN, ha escluso che il suo governo possa pagare le spese del muro. Nelle strade di Città del Messico, intanto, veniva bruciata l’immagine di Trump.

La campagna elettorale, e la candidatura ufficiale di Trump, cambiano ovviamente tutto. Per il presidente messicano si tratta di prendere atto della realtà e quindi cercare di avviare una qualche forma di rapporto con un leader che comunque Città del Messico ritiene “pericoloso”. Fonti diplomatiche spiegano anche che Peña Nieto ha chiesto ad ambasciata e consolati messicani negli Stati Uniti di entrare “più attivamente” nel dibattito politico USA.

La visita in Messico serve però, soprattutto, a Donald Trump. Il candidato repubblicano è reduce da un’estate disastrosa. Gaffe, polemiche, attacchi sconsiderati a tutto e tutti (si ricorda quello ai due genitori del soldato musulmano morto in Iraq) lo hanno fatto precipitare nei sondaggi. Il nuovo chief executive della sua campagna, Stephen Bannon (ex direttore del sito conservatore Breitbart News) pensa ci sia bisogno di segnali forti, anche clamorosi, che rilancino mediaticamente Trump ma che al tempo stesso ne rafforzino le doti di leadership.

Il viaggio in Messico serve soprattutto a questo. A mostrare un Trump forte, capace di trattare direttamente con i leader internazionali, lontano da quell’immagine di lunatico, irresponsabile e imprevedibile, che l’ultima fase della campagna ha mostrato. In questo modo si spiega anche la fretta con cui il team di Trump ha chiesto, e preparato, l’incontro con Peña Nieto. I messicani, raccontano sempre fonti diplomatiche, avrebbero preferito che l’incontro venisse organizzato con più tempo e cura (anche per ragioni di sicurezza). Trump e i suoi l’hanno chiesto chiesto.

Legato alla visita in Messico, c’è il discorso che Trump terrà subito dopo in Arizona. I suoi collaboratori lo presentano come un “evento importantissimo”, che chiarirà finalmente le sue posizioni sul tema dell’immigrazione. Anche qui, negli ultimi tempi, ci sono stati ondeggiamenti che hanno confuso gli elettori. Nel discorso in cui, nel giugno 2015, Trump lanciò la sua campagna, era contenuta la proposta di deportazione per gli 11/12 milioni di immigrati messicani che da anni vivono, lavorano, studiano, hanno famiglia (ma non i documenti legali) negli Stati Uniti.

Questa è stata la posizione di Trump sino a oggi, più o meno accentuata a seconda che si trovasse di fronte a un pubblico amico o alle telecamere nazionali. Recentemente, però, è successo qualcosa. La proposta della “deportazione” è scomparsa dai suoi discorsi (a fine agosto, in Iowa, Trump ha chiesto che gli irregolari non abbiano accesso a Welfare e servizi, ma non ha parlato delle espulsioni). Di più, alcuni accenti e dichiarazioni hanno fatto pensare a un tentativo di dialogo. In un discorso di fine agosto, Trump si è rivolto a ispanici e neri e ha detto: “Sono il presidente migliore per curare i vostri interessi, voi avete il diritto che i vostri figli non vengano uccisi per strada”.

Persone dell’entourage di Trump negano che sul tema immigrazione ci sia stato un cambio di registro. La realtà è che il cambio di registro c’è stato. Trump cambia tono perché del voto degli ispanici – anche una proporzione minima di quel voto – ha bisogno in Florida, Colorado, Virginia, battleground states dove l’elettorato latino è fondamentale per vincere – e dove i sondaggi lo danno in svantaggio rispetto a Clinton.

Proprio i sondaggi sono, per finire, l’ultima spiegazione dell’attivismo di Trump tra Messico e Arizona. Per tutto il mese di agosto, il candidato è precipitato nei sondaggi. Negli ultimi giorni si assiste a una timida ripresa. La media che RealClearPolitics fa su tutti i rilevamenti nazionali dà Trump indietro di 4,3 punti rispetto alla Clinton. Non sono gli oltre 10 punti di svantaggio di agosto, ma restano tanti. E il tempo a disposizione è sempre meno. La storia insegna che il candidato che si trova in svantaggio consistente per il Labour Day (il prossimo 5 settembre), non riesce a recuperare e vincere a novembre.

Trump ha quindi ancora pochi giorni a disposizione. E tenta il tutto per tutto, proprio sul tema, l’immigrazione, che ha lanciato, sostenuto, incendiato la sua entrata sulla scena politica.

  • Autore articolo
    Roberto Festa
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