Approfondimenti

Un cielo azzurro per la città “in comune”

Una stampa digitale alta quasi un metro e mezzo e lunga ben 45, collocata ad angolo nella grande sala della palazzina sul retro del Musée Théodore Monod: l’effetto è simil-bassorilievo, la vena parodistica, il titolo The History of Monuments, e con dentro personaggi e situazioni che vanno da una Pietà a soldati moderni armati di AK 47, e con il suo trattamento delle immagini e la sua scelta cromatica bruno scuro l’opera di Wang Qingsong, uno dei più affermati artisti cinesi, sembra voler ricordare di quale melma di vicende umane siano impastati i monumenti che celebrano la Storia.

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Il lavoro di Wang Qingsong è il pezzo forte dell’esposizione frutto delle scelte di sei commissari di diverse provenienze (Camerun, Canarie, Brasile, Italia, Corea e India), invitati dal direttore artistico Simon Njami per assicurare a Dak’Art una forte apertura alla dimensione globale dell’arte contemporanea: uno sguardo sul mondo, con un nutrito assortimento in particolare di opere indiane e brasiliane, che assieme alla selezione internazionale all’Ancien Palais de Justice (intitolata Rèenchantements: ce ne siamo occupati nel primo di questi resoconti) costituisce l’asse portante della parte ufficiale, dell’In, della dodicesima edizione della Biennale di Dakar.

Njami è stato investito dell’incarico della cura della Biennale a pochi mesi dalla manifestazione, e ha fatto del suo meglio per caratterizzarla, ma senza evidentemente poter intervenire su tutto. Insoddisfacente per quantità e qualità, ma difficilmente ascrivibile alla sua responsabilità, la mostra “Hommages” alla Galerie National, dedicata ad alcuni protagonisti compianti o viventi dell’arte senegalese, in cui si distinguevano prepotentemente un paio di opere anni ottanta di Joe Ouakam, grande vecchio dell’avanguardia senegalese, non sufficienti però a riscattare una esposizione modestissima a confronto con retrospettive ospitate in passato nella stessa sede, come quelle consacrate in edizioni precedenti a Christian Lattier o a Moustapha Dimé, o in occasione del Fesman del 2010 allo stesso Joe Ouakam.

Nel nuovo millennio Dak’Art ha registrato una grande crescita della parte Off, con una quantità di proposte che a Dakar e nella banlieue ammontava quest’anno a quasi duecento: una proliferazione che però dal punto di vista qualitativo e dell’assortimento è ormai un po’ stagnante, e che comunque malgrado la diffusione sul territorio non è mai riuscita a risolvere l’annoso problema del rapporto di Dak’Art con la città e con la grande massa della popolazione. Njami ha capito che occorre estendere la sfera dell’In, e rimettere un po’ d’ordine anche nell’Off, innervando con iniziative guidate o comunque coordinate e controllate dalla direzione artistica il tessuto di Dak’Art, e ha cominciato ad operare in questo senso.

Inserita nel progetto Urbi (un insieme di iniziative correlate con la parte ufficiale della manifestazione), è interessante per esempio una serie di interventi nel quartiere di SICAP Liberté, progetto di urbanizzazione modello voluto negli anni dell’indipendenza dal presidente Senghor: fa effetto – e si stringe anche un po’ il cuore – “leggere” la struttura e le condizioni attuali dell’area confrontandole con le immagini d’epoca – esposte per l’occasione nel quartiere – anche in panoramiche aeree, in cui appare la razionalità e il nitore dell’architettura e dell’urbanistica ma anche l’ordine della quotidianità e della vita sociale di allora. SICAP Liberté fu uno dei motivi di orgoglio del nuovo Senegal, con la sua fontana al centro di un rondò, i condomini intorno a semicerchio a fare da perno ad una distesa di basse villette familiari, in un irradiarsi di viali e vialetti alberati, e la dotazione di cinema, biblioteche, spazi verdi e per il gioco. Poi la crescita demografica, l’inurbamento dalle campagne, le spinte socioeconomiche hanno via via fortemente compromesso l’equilibro di questo spicchio di una città che è nel frattempo diventata una metropoli, modificandone gli stessi spazi e/o il loro uso e alterandone anche l’armonica fisionomia architettonica (molte villette sono state sostituite da edifici architettonicamente assai meno giudiziosi, non senza esempi di quella sorta di “postmoderno dakarese” che imperversa nella capitale).

Oggi SICAP Liberté non è neppure più un quartiere tanto sicuro, stando per esempio ai casi di violenza sessuale. Il vivace centro culturale Kër Thiossane, che ha sede nella zona, ha ideato un ventaglio di atelier, residenze di artisti, mostre, performance, installazioni, discussioni, invitando gli abitanti, gli artisti, i frequentatori della Biennale a ragionare sulla città di domani, col titolo/parola d’ordine di “Una città in comune”. Del resto Njami ha dato come tema-suggestione a questa Biennale alcune parole di un verso di Senghor, “la cité dans le jour bleu”, tratte da Au Guélowar, una poesia contenuta in Hosties noires, una raccolta che Senghor aveva cominciato a comporre quando era prigioniero durante la seconda guerra mondiale, e che costituiva una sorta di programma poetico per il dopo-colonizzazione, con cui Njami vuole rinviare all’utopia di un’Africa in cui i cieli, dal grigio di oggi, tornino ad essere azzurri come nelle speranze dell’era delle indipendenze. E Njami ha intitolato l’esposizione della selezione internazionale Réenchantements. E a questo ri-incanto corrispondono, su un piano pratico e simbolico, alcune operazioni e alcune riflessioni proposte a SICAP Liberté.

Come il proseguimento della creazione, avviata nel 2014, di un giardino d’artista concepito dal francese Emmanuel Louisgrand, restituzione di uno spazio pubblico degradato ad un utilizzo condiviso. In questo stadio di questo work in progress, il giardino è stato arricchito di una “voliera” centrale, come luogo di pausa e di riposo, ma anche per incontri e discussioni. L’utilizzo di questo terreno “abbandonato” fra alcuni edifici è stato anche l’occasione – anche in questo caso di valenza pratica e simbolica – di una complessa e interessante negoziazione con i soggetti informali protagonisti dell’appropriazione (anche per attività non raccomandabili) di questo spazio pubblico.

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Una mostra di taccuini d’artista elaborati nel corso dei workshop – tenutisi in varie città del mondo, soprattutto in Africa – di AtWork, un’iniziativa animata dallo stesso Njami il cui senso è quello di incitare giovani a mettersi al lavoro sull’arte, ha richiamato l’attenzione degli abitanti della zona su una biblioteca trascurata ma funzionante.

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Negli atelier di SICAP Liberté si è discusso fra l’altro di applicazione delle nuove tecnologie e di nuove invenzioni alla soluzione di problemi urbani, di ecologia, di energie rinnovabili, per esempio della costruzione di un sistema autonomo di creazione di energia per l’illuminazione pubblica: insomma della prospettiva di una città sostenibile, partecipata, “comune”, della creazione di un nuovo civismo.

Un’altra urgenza da affrontare per il futuro di Dak’Art è quella di dare maggiore consistenza alla rappresentazione di scene artistiche nazionali, e di incrementare inoltre la partecipazione non francofona, incentivando delle presenze strutturate nell’Off o inserendole nell’In.

L’In prevedeva in effetti due paesi invitati, il Qatar e la Nigeria, con esposizioni alla Place du Souvenir, sulla Corniche, con inaugurazioni che avrebbero dovuto tenersi il secondo giorno della Biennale, cosa effettivamente avvenuta per la mostra del Qatar, che era però non proprio entusiasmante, mentre per tutta la prima settimana in cui abbiamo seguito la manifestazione, della Nigeria non si è vista traccia. Ci si consola con l’installazione realizzata sulla sabbia della Corniche proprio lì a fianco della Place du Souvenir dall’artista ivoriano Jems Koko Bi, altra elaborazione di un tema di cui si era già visto un esempio in un Off ivoriano alla Biennale di Venezia nel 2013: tre sagome di piroghe in legno, che si ergono e si incontrano in cima, e da cui si rovesciano teste intagliate in legno e dipinte di nero: una rappresentazione dei naufragi dei migranti, che qui, terra di partenza di molti di loro, e sul bordo del mare, con lì sotto gli scogli neri della Corniche, non lascia indifferenti.

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Nell’Off significativa la collettiva di artisti maliani proposta nel bel edificio d’epoca sede della società Eiffage, uno dei primi gruppi in Francia nel campo dell’ingegneria e dei lavori pubblici e con forti interessi in Senegal, che da anni è uno degli sponsor più importanti di Dak’Art, sia per gli aspetti ufficiali della manifestazione che nell’ambito dell’Off: sotto l’intestazione “Promenade à Bamako” l’esposizione ha presentato lavori di alcune figure di rilievo della scena artistica della capitale maliana e dato un’idea del lavoro delle sue gallerie: i magnifici arazzi di Abdoulaye Konaté (direttore del Conservatorio delle arti di Bamako), tele di Amadou Sanogo, Ibrahima Konaté e Abdou Ouologuem, foto di Sadio Diakité, arredi di design di Cheick Diallo.

Fra le esposizioni rappresentative di scene nazionali, è doverosa una menzione particolare per la collettiva di giovani camerunesi e congolesi che per dare loro un’opportunità ha organizzato sulla terrazza della Maison de Presse Bill Kouelany, animatrice dell’unico centro di arte contemporanea di Brazzaville (che a causa delle difficoltà riesce a tenere aperto si e no), prendendosi la briga di cercare con fatica sponsor per pagare l’affitto dello spazio e i viaggi e le spese di soggiorno degli artisti. Già in precedenti edizioni di Dak’Art Bill Kouelany aveva proposto delle esposizioni, sempre con la formula doppiamente meritoria di dare spazio a giovani artisti, e di volta in volta oltre che del Congo-Brazzaville anche di un altro paese. Rimarchevoli, di grande effetto, i francobolli giganti del camerunese David Nkot, con volti presi un po’ da sotto in su, in una posa scomposta, spesso stravolti, macchiati, insanguinati, di chi è rimasto vittima di una morte cruenta, e con impressi in serie, come il motivo di una carta da parati, nomi di armi, AK 47, Mig 31.

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Significativo anche lo sforzo di Njami di dare alla manifestazione un corredo spettacolare, con concerti gratuiti (in uno Cheikh Lo ha festeggiato, con numerosi ospiti fra cui Youssou Ndour, quarant’anni di onorata carriera) e altre ideazioni che facendo perno sul “Village” della Biennale creato alla vecchia stazione ferroviaria hanno investito diverse zone della città.

Come si è già accennato, quanto accade nell’Off non è naturalmente responsabilità della direzione della Biennale, ma l’esigenza ormai irrinviabile di monitorare con maggiore attenzione di questo aspetto importante della manifestazione e di tenerne un po’ le redini era segnalata, se ce ne fosse stato bisogno, da alcuni sgangheri non del tutto secondari, di rilievo tale da riverberarsi negativamente anche sulla incolpevole Biennale. Sia alla Fondazione Senghor che alla casa-museo di Senghor erano annunciate delle esposizioni, in realtà del tutto latitanti: defaillance simbolicamente piuttosto pesanti riguardando sedi che portano il nome del presidente-padre della patria, e tanto più nel cinquantesimo anniversario (che ricorre proprio in questi mesi) dello storico Festival mondial des arts nègres del ’66.

Ampiamente pubblicizzata da vistosi cartelloni elettronici in tutta Dakar, imbarazzante anche l’esposizione proposta al Centre de conference de Dakar Abdou Diouf; una cattedrale nel deserto per raggiungere la quale occorre infilare una recente autostrada a pedaggio, fare una ventina di chilometri fuori Dakar, e arrivare a Diamniadio (cosa che nelle abituali condizioni del traffico infrasettimanale può essere non proprio una passeggiata): per constatare che non c’era da vedere altro che qualche foto e qualche mobile di design. Esperienza resa ancora più dolorosa dalla scoperta che dentro quella recentissima, elegante struttura di architettura contemporanea, stazionano permanentemente – banalizzandole come qualcosa di decorativodiverse sculture di Ousmane Sow, messe lì senza particolare criterio: opere che meriterebbero di essere degnamente conservate e valorizzate in quel museo di arte contemporanea che per il momento a Dakar continua a non esserci. Ma visita a suo modo istruttiva: il centro di conferenze di Diamniadio è stato costruito da una società turca fortemente presente in Senegal, che intorno a questa struttura costruirà molto altro, fra cui un complesso sportivo multifunzionale con arena da 15 mila posti. In pratica a Diamniadio nascerà una nuova città costruita da zero (e già si discute se debba essere una città satellite di Dakar o una nuova città a se stante), una sorta di Brasilia senegalese, qualcosa di inedito per tutta l’Africa occidentale.

Una delle certezze di Dak’Art è Soly Cissé, una delle figure di punta della scena senegalese: e quest’anno c’era da compiacersi anche più del solito della possibilità di vedere delle sue novità, perché da un anno Cissé è a Parigi, dove è in fase di riabilitazione dopo che nella capitale francese è stato salvato in extremis da un diabete mal trattato a Dakar, che purtroppo gli è costato entrambi i piedi. Soly Cissé è un uomo molto forte, e appena ha potuto ha subito ripreso a lavorare. Nella sede dell’Atelier Ceramiques Almadies di Mauro Petroni, artista italiano da una vita in Senegal e molto accreditato a Dakar, sono stati presentati degli splendidi lavori a pastello e collage su carta nera, una combinazione nuova nella produzione di Cissé, e diverse grandi tele, piene di colore, vivaci, allegre: in alcune sono delle gambe l’elemento che al primo colpo d’occhio vengono fuori di più, e poi ci si accorge che qua e là ci sono anche moncherini e sedie a rotelle, ma senza nessuna pesantezza o autocommiserazione, in una dimensione invece estroversa e di grande vitalismo.

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Sia la lezione di professionalità di Soly Cissé – di livello artistico regolarmente alto in una varietà di tecniche e mezzi diversi utilizzati, dalla tela al disegno alla scultura, e pur in una produzione a ritmo molto sostenuto – sia la sua suggestione stilistica sono entrambe state certamente importanti negli ultimi anni per una nuova generazione di artisti senegalesi: e sia la qualità che una certo debito di poetica si ritrovano in un giovane in ascesa, Barkinado Bocoum, in grandi tele con elementi di collage e pastello oppure in acrilico, piene di colore e movimento, esposte in una bella collettiva a Villa Ba.

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Nella stessa collettiva anche degli interessanti lavori, più decisamente astratti, di Rafiy Okefolakan, giovane del Benin che ha frequentato la Ecole des Arts di Dakar. La grande esuberanza nei colori fa venire in mente il gusto dei protagonisti di Cobra, mentre la tendenza di Okefolakan a stratificare la pittura, a coprire uno strato con un altro, a “complicarla”, non è solo tecnica, ma anche allusione politica alla manipolazione della gente, alle informazioni che vengono tenute nascoste a chi sta in basso.

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  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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