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Prove di democrazia

Il Myanmar, ex Birmania è oggi teatro di un voto atteso e incerto per le condizioni in cui si svolge, con il rischio segnalato da più parti di brogli e tensioni.

Sono 30 milioni gli aventi diritto di voto su 55 milioni di abitanti, oltre 6.000 i candidati di 91 partiti a concorrere per le cariche disponibili: 330 su 440 seggi della Camera dei rappresentati, e 168 dei 224 seggi della Camera delle nazionalità – che hanno il 25% di seggi complessivi garantiti per costituzione ai militari -; 644 membri dei parlamenti dei vari stati federali e 29 seggi riservati alle minoranze nei parlamenti centrale o regionali.

Una competizione che ha come maggiori duellanti il Partito per l’Unione, la solidarietà e lo sviluppo, erede del regime militare chiusosi con le elezioni del 2010, e la Lega nazionale per la democrazia di cui è leader carismatico la Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Un primo contrasto è tra un elettorato complessivamente giovane e candidati che nella grande maggioranza 35 anni. Una situazione che risente dell’elevata anzianità della leadership di entrambi gli schieramenti e che dunque – secondo alcuni osservatori – non è in grado di recepire con chiarezza le necessità e possibilità del paese.

“Se il mio partito vincerà le elezioni di domenica, guiderò il prossimo governo anche se la costituzione mi impedisce di essere presidente”. Con una affermazione che insieme indica la volontà di rivincita della sua Lega nazionale per la democrazia e la disillusione per l’impossibilità di aspirare alla massima carica dello Stato, Aung San Suu Kyi, icona della democrazia birmana, ha rilanciato la sua sfida alla maggioranza attuale, erede del regime militare formalmente terminato nel 2010 dopo mezzo secolo al potere.

Indicando con chiarezza che l’8 novembre correrà non solo per vincere, ma anche per puntare alla carica di primo ministro, nella conferenza stampa diffusa giovedì scorso dal portale Democratic Voice of Burma, Aung San Suu Kyi ha anche promesso ai birmani “un presidente che opererà in accordo con la linea della Lega nazionale per la democrazia”. Il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, è previsto vincerà con ampio margine la competizione elettorale, la prima a cui parteciperà dopo la vittoria nella consultazione del 1990 il cui risultato fu negato dal regime militare.

Non mancano tuttavia in queste affermazioni elementi di rivincita sugli avversari al potere che – impedendo di emendare la costituzione – di fatto saranno in grado nel voto del parlamento successivo al responso delle urne di domenica, di decidere del prossimo capo dello stato. La Costituzione in vigore proibisce infatti a cittadini birmani che abbiano figli o sposi di cittadinanza straniera di aspirare alla carica presidenziale. Aun San Suu Kyi, vedova dell’accademico britannico Michael Aris e madre di due cittadini britannici, ha quindi la strada sbarrata. Un emendamento della carta fondamentale dello Stato dovrebbe essere approvata dal 76 per cento dei parlamentari, in un’assemblea in cui i militari hanno di diritto il 25 per cento seggi e sono quindi in grado di bloccare ogni modifica che potrebbe aprire a una revisione dei loro privilegi e controllo sul Paese.

Al di là delle aspettative e forse ambizioni personali, restano le priorità del paese. Fondamentali pacificazione (con il nodo dei diritti negati alla minoranza musulmana, perseguitata e costretta a scegliere di fatto tra la vita nei campi profughi o la fuga incerta via mare) e un’integrazione che passi anche dal coinvolgimento dei militari che mantengono vasti interessi anche economici. Oltre a questo, tra le priorità, c’è un confronto con le istanze del buddhismo radicale coalizzato attorno al gruppo Ma Ba Tha e al monaco Asin Wirathu.

L’inaugurazione del nuovo parlamento è prevista a febbraio 2016. Mesi di transizione in cui, anche in base ai risultati elettorali, i partiti maggiori dovranno trattare, sia per garantire un governo stabile al paese con la candidatura più probabile ai capo del governo di Aung San Suu Kyi, sia per individuare una candidatura alla prossima presidenza condivisa con gli avversari politici.

Pacificazione, sviluppo e partecipazione sono stati i punti forti della campagna elettorale, segnata ancora dalla repressione di studenti e oppositori e da scontri armati, nelle irrequiete aree di confine, che si sono verificati nonostante la firma il 15 ottobre scorso dall’accordo di pace tra governo e alcune etnie in conflitto.

Stabilità e progresso sono le sfide del dopo-elezioni.I risultati ufficiosi sono previsti entro la giornata di martedì, ma molto dipenderà dalla correttezza del voto che sarà monitorato da osservatori stranieri, anche dell’Unione Europea. A questi sono stati consigliati prudenza nella loro attività e di evitare aree a rischio, come quelle di conflitto tra minoranze e governo centrale e quelle dove più accese sono le tensioni tra buddhisti e musulmani.

  • Autore articolo
    Roberto Festa
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