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7 luglio 1956. Ellington rinasce a Newport

Forse insuperato per quantità e importanza dei protagonisti della vicenda del jazz che sono sfilati sul suo palco, il festival di Newport, nato nel 1954, è stato il teatro di una quantità di esibizioni memorabili.

Quella però che più di ogni altra rappresenta Newport, gli anni ruggenti del festival, e che in ogni caso è rimasta negli annali del jazz come una delle più epiche di tutta la storia di questa musica, è – sessant’anni fa – l’esibizione dell’orchestra di Duke Ellington alla terza edizione del festival, il 7 luglio del 1956: quanto succede quella sera è paragonabile ad una partita che entra nella storia quando nel secondo tempo all’improvviso il risultato si rovescia clamorosamente.

Alla edizione d’esordio il festival richiama undicimila spettatori e dalla stampa viene considerato un successo. Alla seconda edizione, nel ’55, il festival di Newport è già percepito anche da jazzmen di grande statura come un appuntamento dove bisogna esserci.

E Miles Davis non vuole mancare.

Non annunciato ufficialmente, Davis appare all’ultimo momento come ospite nella serata finale, inserito all’interno di una All Stars di musicisti di jazz moderno: ad annunciarli è un presentatore d’eccezione, Duke Ellington.

All’epoca Davis ha già una storia lunga e importante: è stato accanto a Charlie Parker, ha inciso gli innovativi brani che conosciamo sotto il titolo di Birth of the Cool. Ma ha rovinato la propria reputazione sprofondando nella tossicodipendenza. Tempo prima dell’esibizione a Newport, Davis decide di chiudere con l’eroina, col metodo noto in gergo come “cold turkey”, cioè semplicemente smettendo da un giorno all’altro con un atto di volontà, e passando attraverso l’inferno dell’astinenza fino ad uscirne pulito. Nel ’55 Newport rappresenta per Davis una doppia rinascita: quella dalla dipendenza dalla droga, e quella come musicista di successo.

Un suo assolo fa sensazione, tutti riscoprono Miles, e dopo l’esibizione al festival le proposte di contratti discografici e di ingaggi fioccano.

L’anno successivo il festival è teatro di un’altra e forse ancora più sensazionale rinascita: quella del presentatore d’eccezione di Miles l’anno precedente: Duke Ellington, appunto. Per cogliere bene la situazione bisogna tenere presente che Ellington, che noi oggi possiamo considerare un genio assoluto, un monumento della musica del Novecento, stava in quel momento attraversando una fase tutt’altro che florida della sua carriera. Il bebop, il rivoluzionario jazz emerso negli anni quaranta, e in generale l’evoluzione del jazz moderno, lo avevano messo un po’ nell’angolo; inoltre dopo la seconda guerra mondiale si registra per tutta una serie di fattori una pesante crisi delle grandi orchestre. Anche alcuni dei maggiori bandleader sono costretti a gettare la spugna: Ellington tiene duro, ma si ritrova a lavorare in perdita, sostenendo la sua creatura, l’orchestra, con soldi propri, guadagnati con i successi dei decenni precedenti.

E’ in questa condizione, è con questo stato d’animo – non certo quello di un dominatore – che Ellington sale sul palcoscenico di Newport. L’orchestra di Ellington entra in scena per prima, ad aprire la serata, ed è previsto che lasci poi il posto ad altri gruppi per tornare quindi a chiudere la serie di concerti in programma. Le cose non cominciano nel modo migliore. Ellington è scornato perché l’orchestra deve iniziare a ranghi ridotti: mancano all’appello alcuni musicisti, che non si sa che fine abbiano fatto.

Alla terza edizione il festival comincia a tenersi nei giorni dell’anniversario dell’indipendenza degli Stati Uniti, il 4 luglio, e l’orchestra inizia eseguendo l’inno nazionale americano, poi un cavallo di battaglia di Ellington, Black And Tan Fantasy, quindi Tea for Two.

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Dopo questa breve esibizione, Ellington lascia il palco, e subentrano altri gruppi. I musicisti dispersi vengono finalmente rintracciati e l’orchestra torna sul palco al completo. Questa volta Ellington attacca con la meravigliosa sigla della sua band, Take the A Train.

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A questo punto Ellington annuncia una novità, una suite in tre parti composta da lui e dal fidatissimo Billy Strayhorn appositamente per Newport, intitolata proprio Festival Suite. Nel suo libro di memorie, Myself Among Others, l’organizzatore di Newport, George Wein, ricorda che il giovedì notte, finita la prima serata del festival, si trovava a cena a casa dei Lorillard, la coppia di mecenati che aveva ideato e che finanziava il festival, e che alle due di notte suonò il telefono. Era Ellington. Wein gli chiese cosa stesse preparando per il suo show, previsto per sabato. “Niente di speciale”, rispose Ellington laconicamente, “Una medley, e un paio di altre cose”. “Edward”, gli rispose Wein con tono di rimprovero, “io sto lavorando allo spasimo per glorificare quel genio che è Ellington, e tu non cooperi minimamente”. Wein era convinto che Ellington dovesse presentarsi con dei pezzi nuovi, e che dovesse fare di tutto perché l’orchestra facesse un figurone davanti al pubblico e alla critica che ormai seguiva Newport con attenzione, e che non avrebbe perso l’occasione di buttare giù un’esibizione di routine. Wein aggiunge che con Ellington c’era una confidenza tale da permettergli una reprimenda del genere, che Ellington potesse prendere sul serio. Wein, nella sua ammirazione per Duke, non aveva del resto in quel momento percezione del fatto che la carriera di Ellington non stava andando a gonfie vele; per Wein, dunque, Ellington considerava quello di Newport un ingaggio come tanti altri.

Secondo altre opinioni invece Ellington affrontava quell’appuntamento non senza patemi: e forse la sua risposta a Wein lasciava intravvedere un uomo amareggiato e un po’ arreso. Fatto sta che Ellington seguì le indicazioni di Wein e approntò del nuovo materiale. Ecco la Festival Suite, di cui Ellington annuncia via via le tre parti, Festival Junction, Blues To Be There e Newport Up, e i solisti.

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Ellington aveva pensato alla suite proprio come ad un lavoro che avrebbe dovuto conquistare il pubblico, ma lo sforzo suo e di Strayhorn e la bravura degli splendidi solisti dell’orchestra non furono ripagati: la platea rimase abbastanza fredda. La partita però non era ancora chiusa. Quello che non gli era riuscito di mettere a segno con materiale nuovo di pacca, a Ellington sarebbe clamorosamente riuscito rispolverando due vecchi blues e cucendoli assieme con un assolo di sax. E – cosa che Ellington non poteva immaginare – con quei due blues e quell’assolo si sarebbe giocato non solo le sorti della serata, ma addirittura il prosieguo della sua carriera.

“Quando feci Duke Ellington nel ’56 – ha avuto occasione di raccontare George Wein – non sapevo che Duke si trovava a un punto basso della sua carriera. Per me presentare Duke Ellington era un privilegio: non era una questione di business. (…) non realizzai che Newport lo rilanciò per gli ultimi vent’anni della sua vita. Usava dire – e non avevo mai capito che cosa intendesse – ‘sono nato a Newport nel ’56’”.

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Il parto in realtà la sera del 7 luglio 1956 non fu tranquillissimo: le levatrici che fecero ri-nascere Duke Ellington furono due: il sax tenore Paul Gonsalves e una avvenente spettatrice bionda. Alla terza edizione Newport era già diventato una ribalta e un banco di prova importante. Ellington probabilmente temeva la serata. Dopo la Festival Suite, l’orchestra eseguì un cavallo di battaglia di Ellington come Sophisticated Lady, poi un brano cantato piuttosto stucchevole. A questo punto Ellington annunciò che l’orchestra avrebbe proposto due vecchi brani del lontano 1938, Diminuendo in Blue and Crescendo in Blue, intervallati da un’improvvisazione di Gonsalves. Ellington aveva chiesto a Gonsalves di suonare a volontà: e fu l’assolo monstre di Gonsalves a cambiare le sorti della serata: il pubblico cominciò a scaldarsi, e una bionda giovane signora, ex starlette hollywoodiana, in un elegante abito nero si alzò presa dalla musica e si mise a ballare, galvanizzando Gonsalvez e l’orchestra e contagiando la platea, che andò in visibilio. Ecco i quattordici minuti di Diminuendo and Crescendo in Blue.

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Alla fine del brano “l’applauso e l’ovazione furono immensi – scrive Wein nelle sue memorie – i più forti e massicci che si fossero mai sentiti ad un concerto di jazz”: ecco descritta la scoperta di una nuova dimensione di pubblico da parte del jazz, che fino alla nascita di Newport negli Stati Uniti era stato fondamentalmente una musica da club, da locale notturno, raramente da grandi sale e da grandi platee: proprio quella inedita dimensione che Ellington aveva probabilmente affrontato non senza patemi. Durante l’omerico assolo di Gonsalves in Diminuendo and crescendo in blue non c’è solo la bionda che si alza a ballare, c’è anche – e questo ci aiuta a capire perché quell’episodio apparentemente piccolo tanto piccolo non è – l’organizzatore di Newport, George Wein, che – paradossalmente, proprio quando il concerto stava finalmente carburando – tenta disperatamente e invano di convincere Ellington a stoppare il chilometrico assolo di Gonsalves: e perchè ? Perchè Wein temeva che il pubblico si agitasse troppo. Newport, nel piccolo stato di Rhode Island, a nord-est di New York, era una località di villeggiatura frequentata da parecchia gente facoltosa. Alla metà degli anni Cinquanta quella di un festival del jazz negli Stati Uniti era un’idea sostanzialmente nuova. Non tutti i vacanzieri di Newport trovavano il jazz una musica apprezzabile. Fin dalla seconda edizione nel ’55 il festival aveva incontrato difficoltà, per esempio rispetto alla location all’aperto in cui tenere i concerti, per via del disturbo alla quiete che diversi villeggianti ritenevano la manifestazione avrebbe arrecato. Il festival richiamava molti giovani studenti, che non trovando alloggio dormivano spesso per terra: i giovani cominciavano a mostrare segni di inquietudine e ad esprimersi con comportamenti anticonformisti. Inoltre siamo nel pieno degli anni Cinquanta, il razzismo è ancora molto forte, e non a tutti a Newport avrà fatto piacere che molti dei gruppi invitati da George Wein al festival fossero neri e che tanti neri fossero in mezzo al pubblico.

Ellington la notte del 7 luglio del ’56 faticò a chiudere la sua esibizione, fra l’insistenza del pubblico che gli chiedeva ancora musica, e la sua emozione per l’improvviso exploit che aveva colto tutti di sorpresa, lui per primo. Era tardi, e una parte del pubblico aveva già lasciato il festival, ma c’erano ancora circa settemila persone che pretendevano dell’altra musica. Per calmare il pubblico Ellington intelligentemente scelse di cambiare registro. In mezzo all’eccitazione e alle urla del pubblico annunciò I Got It Bad, con il sax alto di Johnny Hodges, uno dei suoi più sublimi solisti.

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Malgrado due pezzi con protagonista Hodges, il pubblico continua ad essere agitato, e Wein, preoccupatissimo, cerca di far capire a Ellington che è il momento di chiudere. Ma ormai di mezzo non c’è più solo l’insistenza del pubblico, c’è anche Ellington che si è reso conto che quella è la sua grande e insperata occasione: e per la disperazione di Wein, Ellington va al microfono per tranquillizzare la platea: “ne abbiamo ancora un bel po’!”, dice, e annuncia un altro brano, Tulip or Turnip.

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Alla fine del brano, Wein prende direttamente il microfono e tenta di chiudere dicendo “Duke Ellington, ladies and gentlemen!”, ma il pubblico è in orgasmo e Wein si rende conto che la band non smetterebbe più di suonare. Nella registrazione si sente il pubblico in fibrillazione, la confusione, e si percepisce anche la tensione. Wein dice a Ellington: “Stop! Fine della storia!”. E Ellington: “Ancora uno. George, ne vogliono ancora uno…”. Wein è tassativo. Allora Ellington bara e – si sente abbastanza chiaramente nella registrazione – gli dice: “Lasciami almeno augurare la buona notte”, e riprende il microfono: e Wein, sempre più disperato, lo sente annunciare nientemeno che uno spettacolare, eccitante pezzo con protagonista la batteria. Nelle sue memorie Wein ha poi riconosciuto che in realtà la scelta di Ellington era stata anche nella gestione della massa del pubblico molto accorta: non sarebbe stato prudente smettere subito, e un pezzo con la batteria come protagonista gettato in pasto al pubblico ebbe l’effetto di saziarlo definitivamente. Dopo il lungo Skin Deep, imperniato sulla batteria di Sam Woodyard, Ellington finalmente sigla la serata con un brevissimo Mood Indigo, uno dei suoi cavalli di battaglia, su cui, con la sua solita classe, si rivolge al pubblico accomiatandosi con la formula “You are very beautiful, very sweet and we do love you madly”.

L’agitazione del pubblico durante l’esibizione di Ellington è solo un antipasto: pionieristico nella formula del festival del jazz, Newport sarà all’avanguardia anche in fatto di problemi di ordine pubblico e di effervescenza giovanile, che negli stessi anni hanno cominciato a verificarsi ai concerti di rock’n’roll: i gravi disordini che si registrano nel ’60 e che portano alla chiusura anticipata dell’edizione di quell’anno del Newport Jazz Festival anticipano le dinamiche dei concerti e festival rock degli anni Sessanta e Settanta.

In ogni caso, le foto della bionda che ballava scatenata al suono di un’orchestra nera contribuirono alla fortuna del festival di Newport e a riportare sugli altari Duke Ellington. Un mese e mezzo dopo Ellington campeggiava sulla copertina di Time, che da anni gli faceva sospirare questo onore, già concesso dal settimanale a Louis Armstrong e a Dave Brubeck. L’exploit di Ellington, come già l’anno prima quello di Davis, è uno di quegli eventi che creano l’epopea di Newport, che danno forza alla allora pionieristica formula del festival del jazz estivo, all’aperto.

Duke_Ellington_-_Time_Magazine_cover_-_Aug_20,_1956

Sia il mito di Newport che il rilancio di Ellington furono poi alimentati dall’Lp Ellington at Newport, che, pubblicato a tamburo battente sull’onda della memorabile esibizione di Duke, sarebbe diventato il suo album più venduto. Lo straordinario successo di Ellington at Newport diede la stura a tutto un filone di At Newport e titoli simili, che, già numerosi l’anno successivo, sono un indice dell’affermazione di Newport e del suo nuovo modo di proporre il jazz, e aprono la strada alla fortunata formula dei live ai grandi festival, che sarà ripresa poi dal rock. Ma dietro a questo storico album, così come anche dietro al Duke Ellington. Newport 1958 pubblicato dopo la successiva esibizione del bandleader al festival, c’è un retroscena che si scoprirà solo molto tempo dopo.

In realtà, il Duke Ellington at Newport pubblicato nel ’56, non era veramente “at Newport”, ma frutto di un’abile manipolazione. Ellington non aveva avuto molto tempo per provare con l’orchestra, e al di là del grande successo raccolto in effetti non era stato molto soddisfatto della resa della musica, e così aveva chiesto alla casa discografica di poter reincidere del materiale, ed era entrato in studio subito dopo il festival. Il produttore George Avakian si incaricò di mescolare il materiale registrato in studio con parti della registrazioni live, e aggiunse degli applausi artificiali. Gli applausi in particolare furono utilizzati per coprire la magagna proprio del celebre assolo di Gonsalves: il sassofonista aveva infatti suonato sbagliando microfono, e la registrazione del suo assolo era pessima. In definitiva meno della metà dell’album era fatta delle registrazioni originali. Poi nel 1996 negli archivi di Voice of America venne scoperto il nastro della registrazione radiofonica, che fu restaurato con i procedimenti più moderni, e a cui fu data una dimensione stereofonica. E finalmente si poté tra l’altro ascoltare sul serio l’assolo di Paul Gonsalves.

Qualcosa di simile accadde anche per l’album relativo all’esibizione del ’58. In pratica, clamorosamente, per decenni appassionati e critici hanno ascoltato due live fasulli. Oggi disponiamo invece in Cd delle registrazioni autentiche dei due concerti, oltre a tutto assai più ampie degli album originari.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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