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Gato Barbieri, un sax che ha fatto epoca

Protagonista con il suo sax struggente della colonna sonora di Ultimo tango a Parigi, jazzman fra i più popolari degli ultimi decenni del Novecento, Leandro Gato Barbieri è morto il 2 aprile in un ospedale di New York per una polmonite. Aveva 83 anni.

In un decennio come quello dei Settanta, in cui la concorrenza era certo non poca, perché di grande musica in circolazione di sicuro non ne mancava, Gato Barbieri fu uno dei pochi di cui si possa veramente dire che “fece epoca”. In un periodo in cui si poteva ascoltare tanta musica entusiasmante, Gato fece breccia nel cuore di un vasto pubblico giovanile in cui si ritrovavano ascoltatori di jazz, di rock, o interessati senza distinzioni di genere a tutte le forme di musica più innovative e stimolanti, che arrivassero da un Jimi Hendrix o da un Ornette Coleman, da uno Stockhausen o da un Miles Davis.

Barbieri fu uno dei grandi riferimenti musicali per una nuova generazione che fu affascinata da una musica, quella che Gato cominciò a proporre dalla fine dei sessanta, che oggi potremmo definire un esempio di world music ante litteram, in cui il jazz si incrociava con l’America latina, non senza valenze politiche. Ma il suono turgido, il pathos del sax tenore di Barbieri conquistò e si fissò nella memoria di un pubblico di gran lunga più vasto grazie alla colonna sonora di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. La popolarità di Gato Barbieri esplode quindi sia tra gli appassionati di jazz che fuori della loro cerchia nei primi anni settanta, quando Barbieri ha ormai finalmente trovato una poetica specifica, fortissimamente caratterizzante, a cui è arrivato attraverso una decina d’anni di tentativi, di dubbi, di ricerche, di riflessioni sulla propria identità.

Leandro Barbieri nasce a Rosario, in Argentina, il 28 novembre 1932, in una famiglia modesta ma portata alla musica: il padre, carpentiere, suona il violino nelle feste popolari, lo zio suona il sax tenore, il fratello Ruben la tromba. Leandro inizia suonando il flauto dolce, poi a nove-dieci anni, in una scuola di musica per bambini delle classi meno abbienti, gli assegnano un requinto, un clarinetto piccolo. Poi la famiglia si trasferisce a Buenos Aires, Leandro studia per cinque anni il clarinetto, prende lezioni di sax alto e composizione. Nello stesso periodo del trasferimento a Buenos Aires Barbieri scopre il jazz ascoltando Charlie Parker. A diciotto anni comincia a suonare jazz, al sax alto, con un musicista di grande valore come Lalo Schifrin, e verso i vent’anni durante una session si trova fra le mani un sax tenore e si innamora del suono dello strumento.

A cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta Barbieri, notato anche dalla critica americana, è ormai il numero uno del jazz argentino (Schifrin si è intanto trasferito negli Stati Uniti), un musicista di punta, così di punta da ritrovarsi anche isolato nella pratica di un jazz moderno, il suo, che guarda alle novità di Rollins, di Coltrane, di Davis. Barbieri guida ormai propri gruppi che si esprimono in un linguaggio avanzato, suona con musicisti importanti di passaggio, Jim Hall, Kenny Dorham, Tommy Flanagan, Curtis Fuller, ma l’ambiente di Buenos Aires gli va stretto.

Dopo un’esperienza di alcuni mesi in Brasile nel ’59, nel corso della quale rimane colpito dalla bossa nova di Tom Jobim e Joao Gilberto, Barbieri nel ’62, malgrado gli inviti a recarsi negli Usa che gli arrivano fra l’altro anche da Schifrin, sceglie di trasferirsi a Roma: l’Italia è il paese di origine sia della sua famiglia che della sua compagna Michelle, e nella capitale la coppia può contare su numerose amicizie.

Barbieri arriva a Roma nell’ottobre del ’62, e in breve tempo diventa richiestissimo: sia per sbarcare il lunario, sia per via delle sue amicizie nell’ambito artistico e intellettuale della capitale, Barbieri si divide fra jazz nei club, studi di registrazione, musica leggera, lavoro per la televisione e il cinema, ed è persino orchestrale per il Cantagiro. Già nell’inverno successivo al suo approdo nella capitale è in studio per la sua prestazione extrajazzistica di quel periodo italiano che resterà di gran lunga più famosa: l’assolo di sax per Sapore di sale di Gino Paoli.

Abbondante è il lavoro per colonne sonore, più o meno qualificate, per il cinema: Barbieri collabora con Bertolucci per Prima della rivoluzione, incide per le musiche di film di Giuliano Montaldo e più tardi di Marco Ferreri, è tra i protagonisti di Appunti per un film sul jazz di Gianni Amico.

Intanto comincia a diventare una risorsa importante della più avanzata scena jazzistica italiana dell’epoca. Nel ’64 a Milano Barbieri partecipa all’incisione di Night in Fonorama del batterista Franco Tonani, album inciso in una sola notte, senza niente di preordinato, che testimonia del livello raggiunto in quegli anni dal jazz italiano.

Sempre nel ’64 è anche in studio di incisione per Tribute to Someone, album intestato a Giorgio Azzolini, che per una lunga fase è il contrabbassista per eccellenza del jazz moderno in Italia.

Per Barbieri la vita non è facile, e i soldi sono sempre pochi. In compenso Roma, con il suo mondo della cultura e dello spettacolo, è in quel periodo una città che non manca di stimoli: è la Roma dove soggiorna Steve Lacy, dove è attivo il gruppo di americani di Musica Elettronica Viva, dove incontra Don Cherry, in tour in Europa con Sonny Rollins, e dove nell’ambiente jazzistico cova la passione per il free jazz.

Intanto nel ’63 Barbieri assiste a Milano al concerto di John Coltrane al Teatro dell’Arte, poi al festival di Juan-les-Pins, in Costa Azzurra, vede per la prima volta Miles Davis: a Juan-les-Pins Barbieri arriva assieme col trombettista Enrico Rava, con cui stabilisce una fruttuosa collaborazione: in un club della capitale suona per alcuni mesi di fila in un quintetto che allinea Rava e il giovane Franco D’Andrea al pianoforte.

E’ già il periodo in cui Barbieri, fortemente in debito con Coltrane, comincia a meditare di emanciparsi da una eccessiva dipendenza dal suo modello e di cercare una cifra stilistica più personale, sollecitato in particolare dal free. Una fase cruciale di passaggio comincia nel ’65.

Ormai dopo Buenos Aires anche Roma sta stretta a Gato. Barbieri nella primavera del ’65 è a Parigi. Lì ritrova Don Cherry, che lo invita a suonare in un club della capitale francese: ne esce un sodalizio che porterà Barbieri via dall’Italia e che si tradurrà in alcuni capolavori dell’era del free. Cherry e Barbieri partecipano all’incisione della colonna sonora del film Le départ di Jerzy Skolimowski, firmata da Komeda, incidono col loro gruppo, a Parigi, i primi tre movimenti dell’album Togetherness, e partecipano inoltre ad alcuni festival europei.

Pubblicato da un’etichetta italiana, Togetherness rimane meno conosciuto dei due successivi album di Don Cherry a cui Barbieri partecipa: il primo è Complete Communion, inciso negli Stati Uniti la vigilia di Natale del ’65.

Tornato in Italia, il 4 febbraio del ’66 Barbieri è in studio di incisione a Milano con la formazione, nella quale compaiono anche Don Cherry ed Enrico Rava, che registra la suite Nuovi Sentimenti (New Feelings) di Giorgio Gaslini. La seduta è stata organizzata nel giro di pochi giorni, e la partitura viene stesa da Gaslini all’ultimo momento: tutto è registrato fra il pomeriggio e la sera. Lavoro molto ardito e originale, New Feelings rispecchia sia le tensioni e le urgenze del free jazz che la formazione europea di Gaslini, ed è reso prezioso dalla eccezionale qualità delle voci solistiche: Barbieri si distingue con un assolo espressionistico, che testimonia anche della maturazione di un suo linguaggio meno legato ai modelli di Rollins e Coltrane, nel secondo movimento della suite, Marcia dell’uomo.

Nel ’66 la collaborazione con Don Cherry fa ormai spostare il baricentro dell’attività di Barbieri a New York. Nel settembre del ’66 Barbieri e Cherry sono di nuovo in studio di incisione oltre oceano per un altro capolavoro, Symphony for Improvisers.

https://youtu.be/H2Eb6vjLPsY

Lo spirito della musica di questi album è quello di cui ci forniscono una traccia i titoli, Togetherness, Complete Communion, Symphony for Improvisers: dunque l’improvvisazione sulla base di una intesa profonda, di una comunione di intenti. Barbieri, riferendosi al concetto di “togetherness”, e a questa esperienza con Cherry, parla di “essere insieme… /la togetherness/ si realizza perfettamente quando non dobbiamo più neanche parlare, perché già ci diciamo tutto suonando. Questo va oltre la musica per diventare filosofia di vita”. E la musica comunica prepotentemente la felicità di questa pratica improvvisativa, la spontaneità, raggiunta attraverso una lunga confidenza, che si traduce in un rapporto intuitivo, di un free che si sposa con la melodia e con il ritmo, di un free profondamente intriso – si protrebbe dire – di swing, e di sapore spesso estremamente affabile e giocoso.

La voce strumentale di Barbieri assume in questa fase un carattere più personale: in alcuni momenti non può non ricordare Ayler, il grande sax tenore con cui Don Cherry ha proficuamente collaborato, ma cominciano ad emergere anche tratti di una fisionomia più particolare: tratti che si ritroveranno dispiegati nel Barbieri della fine degli anni sessanta, e che si profilano anche nell’album In Search of the Mistery, primo disco sotto proprio nome del sassofonista argentino, inciso a New York nel marzo del ’67. La voce appare più originale, e compaiono alcuni stilemi che saranno cari al Barbieri che tra poco approderà ad una propria, risolta, identità. Qui questa nuova identità urge, ma ancora appunto in maniera irrisolta: in contrasto con la festosità di Complete Communion e di Symphony for Improvisers, qui ci si trova di fronte ad un free nevrotico, dove l’improvvisazione appare innanzi tutto come il veicolo di uno scavo interiore, il modo per fare i conti con se stesso in una sorta di autoanalisi ripiegata sul proprio “personale”.

Qualche mese dopo, Barbieri torna in studio di registrazione, a Milano, e l’album che ne esce, che pure porta come titolo Obsession, mostra una elaborazione più distesa.

Tornato a New York, Barbieri nel gennaio del ’68 partecipa a due incisioni della Jazz Composers Orchestra, esperienza di ricerca artistica ma anche di autorganizzazione e autovalorizzazione di alcuni dei più importanti e lucidi personaggi del jazz d’avanguardia americano. Gato è molto interessato a questo tentativo sia sul piano artistico che cooperativistico, ma è ormai molto vicino ad imboccare una strada che lo allontanerà da una prospettiva estetica del genere, di forte impatto free.

Barbieri avverte ormai acutamente un problema di identità musicale, che finisce per tradursi in una forte crisi, che lo porta sull’orlo dell’abbandono della musica. Michelle, la sua compagna, in una conversazione pubblicata nel ’70 dal mensile Musica Jazz, si esprime così: “Gato si sentiva uno straniero, e soprattutto una persona che stava rubando una musica che non gli apparteneva: questa era la sua più grande nevrosi e una delle ragioni per cui non riusciva a comporre una sua musica; la musica veniva sempre forzata, perché Gato aveva bisogno di trovare una sua identità, come bianco (…) che fa della musica che appartiene ai neri”.

Nella ricerca di una propria direzione probabilmente ha un ruolo l’esempio di Cherry: anche il trombettista sta ridefinendo la propria identità e nella seconda metà dei Sessanta comincia a farlo sentendo il richiamo di musiche di altri mondi, non occidentali, e uscendo dall’ortodossia jazzistica. Un’altra figura che contribuisce a ri- indirizzare Barbieri verso una prospettiva più personale è il pianista sudafricano Dollar Brand, per il quale del resto anche Don Cherry ha una grande considerazione. Nel marzo del ’68 Barbieri registra a Milano in duo Brand l’album Hamba Khale: dietro il jazz di Brand c’è tutto un bagaglio d musica sudafricana che fa sì che il pianista non soffra di quei complessi che assillano invece Barbieri, e il contatto con Brand ha un ruolo decisivo nello spingere Barbieri a liberare la propria identità in direzione di radici latinoamericane e in una dimensione terzomondista.

Nel febbraio del ’69 Barbieri contribuisce al commento musicale di Appunti per un’Orestiade africana di Pier Paolo Pasolini. Poi in aprile si tengono a New York le sedute di registrazione per l’album Liberation Music Orchestra di Charlie Haden, che con il loro afflato politico e la rielaborazione di materiali musicali di provenienza popolare, come l’Hasta Siempre di Carlos Puebla e le canzoni repubblicane della guerra civile spagnola finiscono per costituire l’altro grande momento di passaggio di Barbieri ad una nuova visione della sua musica.

Intanto due registi con cui Barbieri è da anni in contatto, l’italiano Gianni Amico e il brasiliano Glauber Rocha, riavvicinano Gato al folclore latinoamericano, e in una fase in cui il “ritorno alle radici” è all’ordine del giorno, Barbieri trova una ragion d’essere che gli era fino a quel momento sfuggita in una collocazione latinoamericana e terzomondista: comincia a fare una musica che non gli appare più “rubata”. D’altro canto, se dietro il free jazz c’è anche un background politico-sociale, anche l’America Latina degli anni sessanta di sollecitazioni politico-sociali ne può offrire in quantità. Lo sbocco è Third World, registrato a New York nel novembre del ’69, un capolavoro che coniuga l’urgenza del free e un pathos latinoamericano. Con una scelta che simboleggia tutto un percorso di recupero e di ricostruzione della propria identità, da parte di un musicista cresciuto a Buenos Aires, suonando jazz e snobbando la più argentina delle musiche, Gato riprende Tango di Piazzolla.

Third World è uno degli album che fanno da spartiacque fra anni sessanta e settanta, marcando l’inizio di un nuovo decennio.

Third World dà la stura ad una raffica di dischi che proiettano Barbieri sotto i riflettori, con musica di grande intensità emotiva ma anche accattivante e con meno asperità free di Third World: Fenix, El Pampero, dal vivo al festival di Montreux, con un trascinante interpretazione di Brasil, e Bolivia, da vivo a new York. Barbieri declina alla sua maniera qualcosa che è nell’aria, in particolare nella cultura e nella sensibilità giovanile, il desiderio di rapporto con altre culture, e parla poi di America latina, allora fortemente presente nell’immaginario culturale e politico dei movimento giovanili e di contestazione.

Ma Barbieri raggiunge una popolarità di gran lunga maggiore con la sua colonna sonora di Ultimo tango a Parigi: Bertolucci parla con Barbieri della cosa quando va ad assistere al concerto di Gato al Conservatorio di Milano, nell’autunno del ’71, quando Barbieri suona dopo Miles Davis; poi si fa vivo qualche mese dopo con una telefonata a New York; nel ’72, fra il pubblico di un concerto di Gato alla Salle Wagram a Parigi, assieme a Bertolucci c’è anche Marlon Brando. Il soundtrack viene registrato nel novembre del ’72 a Roma, con un gruppo di musicisti tra cui Franco D’Andrea e un’orchestra condotta da Oliver Nelson.

Un po’ per volta l’urgenza anche politica del terzomondismo latinomericano degli album di Barbieri si stempera, e anche il repertorio si sfrangia e si fa più vario, come mostra l’album Yesterdays del ’74. Ma Barbieri non ha ancora esaurito il suo slancio verso la musica e la cultura latinoamericane: deve solo ricalibrarlo, per certi versi radicalizzarlo. I suo partner diventano, invece che strumentisti scelti nell’universo jazz e fusion, musicisti che suonano strumenti come flauto, arpa, tamburo degli indios, charanga, strumenti tradizionali, quasi a voler reimpostare il discorso ancora più a monte, ancora più dal principio. Questo nuovo indirizzo dà il via ad una serie di capitoli discografici – si chiamano proprio così: Chapter – all’inizio eccellenti, ma è una direzione tutt’altro che facile da sostenere, tanto artisticamente che commercialmente.

Barbieri chiude la serie con un quarto capitolo registrato dal vivo nel ’75 a New York in cui il gruppo è tornato ad essere più convenzionale.

La musica di Gato negli anni successivi si adagia via via in una dimensione più blanda e commerciale, per esempio in un album come Apasionado, dell’82, a cui partecipa anche Pino Daniele. Dagli anni ottanta Barbieri non riesce più a mantenere lo status che aveva raggiunto nei primi anni settanta e soprattutto con Ultimo Tango. Dopo Apasionado per anni non riesce più a fare un nuovo disco. La morte della compagna di una vita, l’adorata Michelle, e seri problemi di salute fanno il resto.

Cosa resta del fenomeno di Gato Barbieri quando il sassofonista argentino riemerge da un lungo ritiro nella seconda metà degli anni novanta? In qualche caso Barbieri ha trovato una dimensione più stimolante di quella offerta dai suoi gruppi: per esempio con la Fania, la celebre etichetta della salsa newyorkese che lo ha valorizzato come icona della musica latina e inserito nella propria All Stars, e la popolarità di Barbieri è stata corroborata dalla partecipazione ad un film come Calle 52.

Ma anche quando – spesso – in quest’ultimo paio di decenni di declino artistico e fisico Barbieri si è presentato con complessi che lasciavano a desiderare e partner non di prim’ordine, ha però continuato a sfoderare quel suono che si poteva riconoscere fra mille alla prima nota, e che assieme alla sua vena lirica, per quanto magari ormai piuttosto meccanica, e al suo evidente piacere a stare sul palco e a suonare, non poteva non commuovere ancora chi ha tanto amato la sua musica.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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