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Cina, sull’orlo del disastro ambientale

Mentre scriviamo questo articolo, il livello di inquinamento dell’aria nel quartiere di Dongcheng – Pechino centro – segna 482: dieci volte più di quanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità consideri accettabile.

L’indice Aqi su cui si basa la rilevazione calcola le emissioni di particolato (le particelle Pm 2.5 e 2.10), ozono, monossido di carbonio, biossido di zolfo e biossido di azoto.

Oggi, la Cina arriva a Parigi con il proclamato intento di assumere la leadership mondiale della lotta alle emissioni. Al tempo stesso, continuerà a sostenere la tesi di essere ancora una economia in via di sviluppo, di avere cioè molte meno responsabilità di coloro che inquinano da almeno tre-quattrocento anni.

All’interno di queste contraddizioni molteplici, si gioca tutto il rapporto tra l’Impero (molto poco) celeste e l’ambiente.

Va detto che, rispetto a Copenhagen 2009 – quando le trattative sul clima fallirono per il radicale dissenso tra mondo ricco ed economie in via di sviluppo su chi dovesse assumersi le maggiori responsabilità nella lotta al cambiamento climatico – di passi avanti Pechino ne ha fatti parecchi.

La Cina è il più grande mercato mondiale di rinnovabili, con 433 gigawatt di capacità alla fine del 2014: più del doppio rispetto agli Stati Uniti, secondo classificato.

Nell’ultimo anno, ha aggiunto al proprio pacchetto energetico il quadruplo di fonti rinnovabili rispetto agli Usa, secondo Bloomberg New Energy Finance. Gli impianti fotovoltaici totalizzavano 33 gigawatt di produzione alla fine del 2014; una turbina eolica su tre al mondo è oggi in Cina.

Al summit Apec del novembre 2014, il presidente Xi Jinping annunciò a Obama e al mondo che il suo Paese raggiungerà il picco delle proprie emissioni nel 2030, quando un quinto del fabbisogno energetico cinese verrà da fonti rinnovabili. Fu in assoluto il primo impegno preso dalla Cina con date e numeri certi. Secondo diversi analisti, è destinata a raggiungere l’obiettivo prima della data prevista. In un altro incontro con Obama, quello del settembre scorso a Washington, Xi Jinping ha quindi annunciato il varo del sistema nazionale di crediti carbonio che partirà nel 2017 e si è impegnato anche a investire oltre tre miliardi di dollari nei Paesi poveri, per aiutarli a combattere il cambiamento climatico.

Al di là delle singole misure, il fatto strutturale di maggiore importanza è che la Cina ha deciso di mettere fine al modello di sviluppo che l’ha resa “fabbrica del mondo”, per divenire un’economia più evoluta, basata su produzione e servizi ad alto valore aggiunto e sui consumi domestici. Basta fabbriche e fabbrichette energivore ed incuranti delle norme ambientali perché competitive grazie al contenimento dei costi di produzione; d’ora in poi c’è da fare i conti con il nuovo ceto medio in espansione, nato proprio dal boom economico “sporco” e che di quella sporcizia – nei polmoni, nello stomaco – non ne vuole più sapere. Secondo uno studio Berkeley Earth, citato da Bloomberg, l’inquinamento dell’aria uccide oggi in Cina quattromila persone al giorno.

Dato che il benessere collettivo è il parametro su cui il governo cinese misure il proprio consenso e cerca di conservare il potere, si può scommettere che, quando si parla di ambiente, Pechino intende fare sul serio.

Tuttavia, insieme a quel livello 482 dell’indice Aqi, aleggiano alcune domande ricorrenti: bastano le politiche draconiane? La Cina farà in tempo a trasformarsi prima della catastrofe? E quante delle misure decise al centro dell’impero vengono poi attuate alle sue periferie?

Nonostante il boom dell’energia pulita, la Cina rimane un grande consumatore di carbone, che rappresenta ancora oltre il 60 per cento della produzione energetica nazionale. Ogni settimana, in media, ricevono le autorizzazioni ambientali quattro nuove centrali elettriche a carbone, denuncia Greenpeace East Asia. Il punto è che fino a quando sarà il meno caro, il combustibile fossile sarà anche la scelta più facile per i governi locali desiderosi di dare lavoro e sviluppo.

E qui si apre un altro capitolo – politico – nel difficile cammino della Cina verso un ambiente accettabile, perché tutto lo sviluppo degli ultimi trent’anni si è giocato sulla trasformazione dei funzionari “politici” dell’epoca di Mao in “manager” il cui avanzamento nella scala gerarchica dipende dai risultati economici che portano a casa. Bisogna cambiare la loro testa e l’unico strumento è quello degli incentivi: determinarne gli scatti di carriera non in base al Pil locale, ma in base a un pacchetto di criteri qualitativi in cui l’ambiente gioca un ruolo di primo piano. Il processo è in corso, ma di difficile attuazione, perché sul modello di crescita quantitativa si sono costruiti intrecci di potere, legami personali e perfino familiari che vanno moltiplicati per 31 province, 333 prefetture, 2858 contee, 40.858 città, un numero incalcolabile di villaggi; e quindi raddoppiati per due, dato che l’amministrazione è organizzata nelle due strutture parallele del Partito e dello Stato.

Le molteplici contraddizioni che la Cina si trova ad affrontare sono rese tangibili da un rapporto sul cambiamento climatico compilato da 550 esperti e rilasciato dal governo cinese proprio alla vigilia dei colloqui di Parigi.

Il New York Times cita uno degli autori, Zhang Haibin, secondo cui negli ultimi nove anni – cioè dalla prima all’ultima edizione della ricerca – gli effetti del global warming si sono fatti sempre più evidenti. I cambiamenti in corso nelle precipitazioni piovose e nevose – vi si legge – trasformano l’agricoltura. Se è vero che il riscaldamento globale evoca immagini di deserti che avanzano e se le già scarse risorse idriche cinesi potrebbero ridursi del 5 per cento entro la metà del secolo, l’aumento delle temperature fa anche assorbire all’aria più umidità, ciò che si traduce poi in precipitazioni sempre più irregolari, soprattutto nel nord della Cina. Con siccità più frequente nelle stagioni secche e inondazioni più intense nelle stagioni umide, l’agricoltura sarà più duramente messa alla prova, ma non solo: anche le opere di ingegneria, come la famosa diga delle Tre Gole, subiranno sollecitazioni sempre maggiori.

Quanto al ritiro dei ghiacciai e del permafrost nella regione tibetana, non solo metteranno alla prova la ferrovia Pechino-Lhasa, ma possono creare conflitti con i Paesi del sud-est asiatico e l’India per l’approvvigionamento idrico, dato che tutti i grandi fiumi asiatici nascono sull’altopiano.

L’aspetto forse più esemplare riguarda tuttavia l’innalzamento del livello del mare in parallelo alla subsidenza, lo sprofondamento dei terreni per il peso dell’urbanizzazione. Da una parte, c’è il problema globale, il global warming; dall’altro il problema locale, la scelta di puntare ancora sullo sviluppo urbano come leva della crescita.

Entro la fine di questo secolo – dice il rapporto – il livello del Mar Cinese Orientale potrebbe crescere tra i 40 e i 60 centimetri, sommergendo quartieri di città come Shanghai – che per altro poggia sul morbido limo portato a valle dallo Yangtze – e accrescendo i danni di tempeste e tifoni.

Climate Central, un centro studi statunitense, ha previsto un futuro da sfollati per circa 45 milioni di persone tra Hong Kong, Shanghai e Tianjin se, nei prossimi anni, le temperature globali aumenteranno di 4 gradi.

I profughi del clima cinesi saranno “solo” 23,4 milioni se il termometro salirà di 2 gradi.

  • Autore articolo
    Gabriele Battaglia
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